In questa mia povera terra – che una sorta d’invisibile dr. Frankenstein delle istituzioni sembra ormai aver scelto quale sua “creatura” – un’altra ombra inquietante si profila all’orizzonte: l’attuale sindaco di Napoli, dr. De Magistris, ormai a scadenza mandato, ha deciso di candidarsi alla guida della Regione nelle ormai imminenti elezioni.
Si ignora chi l’abbia proposta tale candidatura, italicamente accompagnata dalla premura dell’interessato nell’escludere, nel caso vada male, ogni ipotesi di dimissioni dalla carica attualmente rivestita, pur in via d’esaurimento. Velando appena il disappunto con apprezzamenti a denti stretti per l’ex PM, vi ha alluso il geologo Carlo Tanzi: un bravo professionista che si è sempre detto «né di destra, né di sinistra» e, pertanto di destra, secondo l’infallibile assioma di Bobbio e secondo l’estrazione politica degli amministratori con cui il suo movimento politico governa la città di Crotone. Tace il resto della politica calabrese, in particolare la sinistra, nelle cui fila notoriamente allignano simpatie. E si è presi da sconforto.
Si vorrebbe discutere di degrado ambientale ed etico, degli sfregi al fondamentale diritto alla salute, delle centinaia di migliaia di giovani che se ne vanno da qui con la sconfitta nel cuore come nell’epopea migratoria del dopoguerra e, invece, si resta ancora incatenati all’ovvio, che qui diventa trascurabile dettaglio. Si candida(va) a sindaco o a presidente di Regione chi vive e bene opera nel relativo territorio, al più chi vi ha vissuto e ben operato in passato. Esclusa la prima, si dovrebbe versare nella seconda ipotesi. Però, singolarmente, di quel passato ben operare, nessuno, tranne l’interessato e nella forma indiretta d’un evocato legame sentimentale, declina memoria. Proviamo a farlo.
Il nostro ha esercitato funzioni di pubblico ministero nel capoluogo regionale per alcuni anni e, più che per i risultati processuali delle sue indagini, è noto per la bolgia mediatica che, tenacemente cercata, ne è seguita. Tenacemente cercata perché ogni passo, teoricamente segreto, di quelle indagini era quotidianamente replicato su giornali nazionali e locali, perché era solito, addirittura, dilatare a centinaia di pagine atti come i decreti di perquisizione, che solitamente non superano le quattro o cinque in modo da poterci riversare tutto ciò che sarebbe dovuto rimanere segreto, da verbali di testimonianze a intercettazioni. Così compromettendo definitivamente l’azione investigativa, ma assicurandosi imperitura attenzione mediatica. E altre e simili bazzecole, come fermare nelle patrie galere 26 persone e poi dimenticare di chiedere che un giudice convalidasse il fermo o inventarsi un registro di notizie di reato privato ubicato nella propria cassaforte, così sottraendosi alla verifica dei tempi d’indagine cui i suoi mortali colleghi sono invece sottoposti (questi alcuni dei capi di incolpazione della sentenza di condanna disciplinare del 19 febbraio 2008). Un eufemisticamente disinvolto uso della toga, che gli ha procurato una fama tale da farne il vero precursore del populismo penale di cui oggi si discute e da condurlo, da lì a breve, al seggio sindacale della più importante città del meridione. Un modello di magistrato, non infrequente, che ammicca alle pulsioni ferine del corpo sociale, così descritte da Luigi Ferrajoli, maestro del garantismo penale: «Gli imputati, secondo l’opinione corrente, non si presumono innocenti, ma colpevoli. Il garantismo non fa parte del senso comune, che ha bisogno, purtroppo, di avventarsi immediatamente su capri espiatori. In breve, esso non è popolare e questo basta al populismo per rifiutarlo come un lusso da anime belle. Ci troviamo di fronte a un paradosso. Il garantismo non è solo un sistema di limiti e vincoli al potere punitivo, sia legislativo che giudiziario, a garanzia delle libertà delle persone da punizioni eccessive o arbitrarie. Esso è ancor prima un sistema di regole razionali che garantiscono, nella massima misura, l’accertamento plausibile della “verità processuale” e perciò la punizione dei veri colpevoli. Ma è precisamente questa razionalità che non viene accettata né capita da gran parte dell’opinione pubblica, che aspira al contrario alla giustizia sommaria, tendenzialmente al linciaggio dei sospetti» (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2019/03/06/il-populismo-penale-nelleta-dei-populismi-politici/). Questo è il lascito di De Magistris per la Calabria.
Ora, che un simile campione possa essere acclamato da politici di destra, più o meno camuffati, non stupisce. Ma la possibilità che possa esserlo anche a sinistra, atterrisce. La mia terra, la nostra terra, avrebbe bisogno di una sinistra capace di agire dal basso il conflitto in difesa dello sterminio dei diritti della propria comunità che qui ogni giorno si consuma, non del vicesceriffo di turno. Di una sinistra che cominci a creare, dal basso, alleanze e programmi e solo dopo giunga a esprimere chi sia candidato a rappresentarli e non dell’interminabile coazione a ripetere l’invocazione, intimamente di destra, di un leader.
Incatenati all’ottimismo, quasi ormai per istinto di sopravvivenza, attendiamo fiduciosi che una tale sinistra si palesi.
Mi sembra davvero sorprendente che un magistrato in servizio intervenga in questo modo così diretto nel dibattito politico, “stroncando” la candidatuta di Luigi De Magistris a presidente della regione Calabria.
Un’interessante riflessione, utile a rinfrescare la memoria ai calabresi. La nostra regione non ha bisogno di prime donne, uomini simbolo, bacchette magiche o di personaggi in cerca di autore. La Calabria, che un meraviglioso e dimenticato poeta ha definito “rosa nel bicchiere” necessita di una squadra coesa, competente, capace di sopportare un lavoro umile e silenzioso, consapevole dei problemi gravissimi che incombono e sostenuta da una spinta ideale proveniente dalle migliaia di uomini e donne che affrontano ogni giorno la fatica del vivere quotidiano con onestà e serietà (sono tanti!) È chiedere troppo? Forse! sicuramente è ciò che ancora non si vede all’orizzonte!