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23/11/2020 di: Emilio Sirianni
1.
La Calabria è terra di primati. Per lo più tristi. Ultimo in ordine di tempo, esser diventata “regione rossa” (pandemicamente parlando, ça vas sans dire) nonostante un tessuto economico-produttivo ridotto all’osso, una popolazione di meno di due milioni di abitanti e numeri di diffusione del virus decisamente inferiori a molte delle regioni rimaste in giallo e ciò a causa dell’arcinoto sfacelo del sistema sanitario regionale.
Poi, siccome non lesiniamo mai rappresentazioni del ridicolo su fondali di macerie, ecco il siparietto del «Commissario per il rientro dal deficit sanitario» che scopre, davanti alle telecamere, di essere proprio lui l’incaricato della redazione dell’inesistente piano regionale anti-covid. Negli stessi giorni, da un servizio della trasmissione televisiva Le iene (https://www.iene.mediaset.it/2020/news/calabria-zona-rossa-ospedali_921516.shtml), emerge, fra interviste a politici, sindacalisti e medici del servizio sanitario, una serie impressionante di inadempienze: mancanza di centinaia di posti-letto per pazienti covid e in terapia intensiva; nessuna implementazione delle unità di assistenza domiciliare; nessun hotel-covid per la quarantena dei contagiati; nessuna area di pronto soccorso riservata ai pazienti covid e via svanendo. E mentre cittadini esasperati protestano davanti alle sedi della politica, presso svincoli autostradali e sotto le abitazioni di politici regionali con forti interessi nella sanità privata e sindaci si schierano davanti a Montecitorio, quel che rimane sfuggente è, come sempre, l’individuazione delle cause e delle responsabilità.
Ancora una volta, la sacrosanta indignazione non trascende il mero sfogo emotivo di gente esasperata dal male di vivere in un luogo di dignità calpestata e, secondo un canovaccio che si ripete ben oltre i confini regionali, a questa indignazione non seguiranno cambiamenti o ne seguiranno di non auspicabili. Magari una ripresa del populismo momentaneamente sopito, che di quest’indignazione senza comprensione e sbocchi si pasce.
Proprio all’indignazione erano dedicati due piccoli libri complementari pubblicati in rapida successione, una decina d’anni fa, da due grandi uomini della sinistra e della resistenza al nazi-fascismo: Indignatevi, del francese Stéphane Hessel (Add Ed., 2011) e Indignarsi non basta, del nostro Pietro Ingrao (Alberti Ed., 2011). La riflessione di quest’ultimo, pur non negando la potente leva di cambiamento insita nel moto dell’animo, ne indaga i limiti e così li sintetizza rievocando il golpe di Francisco Franco del 1936 in Spagna e la conseguente guerra civile: «Ricordo di essermi posto, con il lutto nel cuore, la domanda secca: che faccio io? Perché indignarsi non basta. Bisogna costruire una relazione condivisa, attiva […]. Valuto molto più forte il rischio che i sentimenti dell’indignazione e della speranza restino, come tali, inefficaci, in mancanza […] di una lettura del mondo e di un’adeguata pratica politica che dia loro corpo». Ecco, prima che l’eco delle proteste e del ridicolo si spenga, chiunque sia mosso da giusta indignazione dovrebbe cimentarsi in questo sforzo di conoscenza e condivisione. Potrebbe aiutare una bussola che indichi i punti cardinali del caotico tessuto normativo che disciplina il settore e i punti di caduta del sistema.
2.
È noto che l’art.117 della Costituzione fa della «tutela della salute» materia di legislazione concorrente. Lo Stato deve dettare i princìpi fondamentali cui le leggi regionali devono ispirarsi e così ha fatto, in primo luogo, con la legge n. 833 del 1978, istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale. La quale indica gli obiettivi da perseguire; specifica le competenze proprie dello Stato e delle Regioni; istituisce organi di consulenza ed enti di ricerca; delinea il sistema delle USL, cui è demandata la cura ordinaria della salute sul territorio; istituisce i servizi di prevenzione; enuclea i princìpi in tema di sicurezza del lavoro, attività di prevenzione e cura; detta la disciplina generale della distribuzione dei farmaci ecc. È poi intervenuto il decreto legislativo 502 del 1992, largamente rimaneggiato dal decreto legislativo 229/1999, che detta una disciplina di dettaglio in tema di prestazioni, finanziamento del SSN e personale e rimodula l’organizzazione di quelle che ora sono definite «aziende», delineando un sistema ben più complesso del precedente, che era incentrato su di ospedali-monadi suddivisi in «reparti» (chirurgia, medicina interna, ecc.) con a capo un «primario». Sistema che ancora vive nell’immaginario collettivo ed al quale è utile riferirsi per meglio comprendere quanto si va a dire. Le Aziende (nomina sunt consequentia rerum) sanitarie oggi si articolano in Distretti, che accorpano porzioni di territorio di almeno 60.000 abitanti, Aziende ospedaliere e Ospedali, Dipartimenti e, infine, Strutture o Unità operative, quest’ultime potendo essere semplici o complesse. Al vertice di tutto il Direttore Generale, che ‒ precisa la legge ‒ non deve essere scelto con procedure comparative e declina l’organizzazione dell’Azienda con un «atto aziendale», di cui si afferma la natura di atto «di diritto privato», non soggetto alle regole e ai vincoli degli atti amministrativi. Il tutto in ossequio al modello imposto dall’ideologia neoliberale dominante.
Nel sistema così brutalmente sintetizzato, Dipartimenti e Unità operative sono le articolazioni finali cui è affidata la concreta attività di prevenzione e cura (quel che un tempo erano i Reparti). Fondamentale, nel contesto dell’attuale pandemia, il Dipartimento di prevenzione, cui è demandata «la tutela della collettività dai rischi sanitari negli ambienti di vita e […] di lavoro». Le Unità operative, articolazioni organizzative delle Aziende sanitarie o ospedaliere, sono collocate di solito nei Dipartimenti e le une e gli altri hanno al vertice un Dirigente medico (il Primario di un tempo) che, secondo i contratti collettivi, dovrebbe essere scelto attraverso procedure selettive o addirittura concorsuali, ma qui in Calabria questo spesso non avviene per via dell’abuso di una norma di quegli stessi contratti da parte di Direttori generali e Commissari: l’art.18 del contratto collettivo 98-01. Esso banalmente stabilisce che, cessato il rapporto di lavoro del Dirigente di una tali strutture, può essere nominato un sostituto «per il tempo strettamente necessario» ad effettuare le procedure selettive per la scelta del nuovo dirigente e, comunque, per non oltre 12 mesi. Sostituto remunerato con un’indennità di importo molto inferiore alla maggiore retribuzione che spetterebbe al nuovo titolare. Orbene, questa norma e la granitica giurisprudenza della Cassazione secondo cui il sostituto non può pretendere un euro in più della suddetta indennità sono state il grimaldello che ha consentito d’infarcire le Aziende sanitarie calabresi di sostituzioni durate anni, anche fino al pensionamento del sostituto, spesso rimpiazzato da altro sostituto (a quel punto divenuto sostituto del sostituto). Ovviamente, rimossi concorsi e selezioni trasparenti, le clientele dilagano e non sono più i migliori, ma i raccomandati a dirigere molti Dipartimenti ed Unità Operative, con soddisfazione dei Commissari per il risparmio di qualche spicciolo e sventura per i cittadini.
3.
Le cause sistemiche del disastro stanno, però, nella subcultura aziendalista che ha pervaso anche l’ambito della tutela del diritto alla salute e ha portato a un disegno di razionalizzazione del SSN che ha i caratteri di un programma tactcheriano lacrime e sangue, nel quale il riallineamento finanziario è perseguito, appunto, attraverso il «piano di rientro». Introdotto dalla legge finanziaria del 2005 e rimodulato in quella del 2010, è imposto alle Regioni che non rispettino il patto stipulato con lo Stato per il «contenimento della dinamica dei costi» e, se le inadempienze persistono, è prevista la nomina di un commissario ad acta in persona individuata dal Governo e munita di adeguate competenze manageriali. Ben dieci Regioni sono state sottoposte a piano di rientro, alcune con esito positivo (sotto il mero profilo finanziario), altre meno e fra queste ovviamente la Calabria, addirittura destinataria di una legge, diciamo così, ad personam (il decreto legge n. 35/2019).
Alcuni degli strumenti di riallineamento sono amaramente noti ai calabresi: mantenimento delle addizionali regionali Irpef ed Irap sui livelli massimi consentiti, blocco del turn over del personale, riduzione dei posti letto, «razionalizzazione» della rete ospedaliera ecc. Altri, pur in astratto condivisibili (come il contenimento della spesa per la medicina convenzionata), non hanno avuto grande successo. Tanto che, nel periodo 2002-2019, mentre la spesa per gli stipendi del personale è crollata di quasi il 10%, passando dal 41,9% al 31% della spesa sanitaria totale, quella per la medicina convenzionata è diminuita appena dello 0,2%, dal 7,2% al 7%, mantenendosi, negli anni 2011-2017, fra il 7,3% e il 7,6% (in soldoni, sui 250 milioni di euro annui). Il dato non stupisce, essendo sotto gli occhi di tutti il tumultuoso diffondersi, negli ultimi lustri, di sfarzosi laboratori, poliambulatori e cliniche lungo le vie delle nostre città. E ciò mentre la «razionalizzazione» della rete ospedaliera si è ridotta alla trasformazione di 11 strutture ospedaliere in altrettante «Case della Salute» ovvero strutture di mera sanità territoriale, lasciando vasti territori, spesso montani o comunque lontani dagli ospedali sopravvissuti, privi di strutture di ricovero. E lo stesso dicasi per il sistema «dell’emergenza-urgenza», per il quale la finalità di abbattere il sovraffollamento dei Pronto Soccorso, prospettata nel piano di rientro, suona irridente a chiunque – e siamo in tanti ‒ abbia avuto la sventura di un parente malato, abbandonato in quei luoghi per intere settimane e privato d’ogni dignità prima dell’agognato ricovero.
4.
Non ci si poteva poi esimere, nella nomina dei nuovi Commissari-viceré (i cui illimitati poteri si innestano nel contesto descritto), dal muovere qualche altro passo nel grottesco, ma qui la vicenda della Sanità s’interseca con un’altra.
Da quando la sinistra ha ammainato le proprie bandiere (da quando cioè si è ritratta con imbarazzo od orrore dagli ideali di eguaglianza e solidarietà da cui è nata), il suo sguardo smarrito alla ricerca (anche qui) di sostituti ha finito per posarsi sui Palazzi di Giustizia e aree prossime. Una nobile storia dipanatasi negli ultimi decenni ‒ in verità solo una parte della storia di quei palazzi, che ha visto magistrati fedeli al mandato costituzionale opporsi alle mafie dominanti, alla corruzione ed agli abusi del potere, a volte a prezzo della loro stessa vita ‒ ha favorito l’equivoco. E la «lotta per i diritti» è stata sostituita dal mandato conferito a chi, per mestiere, aveva il compito d’individuare e punire i responsabili della loro violazione. Sostituire l’emancipazione con la repressione è, però, un’operazione intimamente reazionaria e non c’è quindi da stupirsi se su questa china la destra, dopo un iniziale smarrimento, abbia finito per condurre la corsa. Ecco allora le nomine alle più varie cariche, prima di magistrati (pubblici ministeri soprattutto) e poi anche di carabinieri, poliziotti e tutori dell’ordine assortiti. Tendenzialmente, ma non necessariamente, prediligendo quelli culturalmente più affini. Un segno straniante di questa deriva lo abbiamo avuto alcuni mesi fa, di fronte al volto sorridente della scomparsa Presidente regionale a braccetto con l’«Uomo Mascherato», campeggianti sulle prime pagine dei giornali. Superato l’attimo di straniamento, abbiamo scoperto che si riferiva della nomina ad assessore regionale all’ambiente del capitano dei carabinieri Sergio De Caprio, detto Capitano Ultimo, noto per aver posto fine alla latitanza di Totò Riina. Scelta foriera di fin troppo facili ironie, data la “latitanza” della politica regionale nella cura dei nostri beni ambientali. Del resto, il precedente Presidente di centro sinistra aveva posto alla guida di “Calabria Verde”, l’azienda forestale regionale, addirittura un Generale della stessa Benemerita e pure Generale era il Commissario alla sanità da ultimo dimessosi.
Né lo scenario cambia se dai vituperati partiti lo sguardo passa ai famosi “corpi intermedi” attraverso cui dovrebbe esprimersi il conflitto sociale, ché i segretari generali dei sindacati confederali calabresi hanno annunciato con orgoglio, pochi giorni fa, di avere presentato un esposto al Procuratore di Catanzaro affinché «sia fatta luce su responsabilità, negligenze e inadempienze che […] hanno fatto precipitare la Calabria in piena seconda ondata della pandemia da Covid-19» (http://www.strettoweb.com/2020/11/calabria-cgil-cisl-uil-presentato-esposto-denuncia-sulla-situazione-della-sanita-nella-nostra-regione/1088225/).
5.
Dunque, mentre le sirene delle ambulanze che vanno a mettersi in fila ai Pronto soccorso squarciano il silenzio e scompare la generazione che, dopo la tragedia della guerra, ha edificato le nostre comunità, la politica regionale esibisce la propria inanità e ci lascia soli di fronte alla domanda posta da Ingrao: «che faccio io?». L’indignazione non dà risposta a questa domanda, ma deve spingerci a cercarla, se non vogliamo che le proteste passino ancora una volta inutilmente, ed a fare dei nostri saperi e della nostra passione un tessuto di condivisione e di lotta, perché saranno queste e non toghe o stellette a ridarci la dignità che ci hanno sottratto.