Lallo, mio marito, ed io ci troviamo dal 6 febbraio scorso a Njiru, un poverissimo sobborgo di Nairobi (Kenya). Grazie a un contatto che nostra figlia istituì anni fa, ci siamo impegnati in due mesi di volontariato nell’orfanotrofio Progressive Focus Center, creato e gestito da Mum Sally, una donna di straordinaria energia che, lasciando il suo impiego presso l’ambasciata americana, si è dedicata da anni al soccorso di bambini orfani o abbandonati. Ce ne sono circa 40, dai 4 ai 15 anni, cui si aggiungono nelle ore scolastiche una decina di allievi “esterni” le cui, per altro ridottissime, rette consentono di coprire il salario degli insegnanti. Per il resto il centro vive di donazioni private e non riceve aiuti governativi.
Orfana di madre, abbandonata dal padre, cresciuta in un orfanotrofio, morta a 13 anni in uno stanzone dell’ospedale Kenyatta di Nairobi: con tre laconiche frasi si potrebbe raccontare la vita e la morte di Fannys, avvenuta il 13 marzo 2020.
Se non fosse per una lama di luce che Mum Sally ha comunque portato nella sua breve vita. Un orfanotrofio fatto di stanze e aule un po’ in cemento e un po’ in fango, dove Fannys ha trovato tante sorelle e tanti fratelli, oltre al suo, Abel, abbandonato insieme a lei e soccorso da Sally. Quei fratelli e sorelle che ora la piangono insieme a Mum Sally e a Soshu Agnes; Soshu (ma si scriverà poi così?) in swahili significa nonna: di fatto Agnes è una zia di Sally che vive con i bambini e si occupa della cucina.
Siamo arrivati qui proprio il giorno prima del suo trasferimento in ospedale per una malformazione cardiaca, che è stata diagnosticata solo in seguito a gravi problemi renali che ne hanno reso necessario il ricovero.
Mum Sally, ovviamente, non avrebbe potuto permettersi di pagare le spese ospedaliere, inaccessibili anche a noi, dato che avevano previsto un intervento; ma con caparbietà e determinazione ha saputo esigere l’accesso ai fondi governativi per l’infanzia che, per quanto stanziati nel bilancio dello stato, di rado arrivano a rispondere alle esigenze dei bambini cui sono destinati.
Questa è la realtà che stiamo conoscendo da vicino, condividendo le giornate, cercando di renderci utili nelle ore di studio e in quelle di gioco, mettendo in campo risorse economiche raccolte tra amici e parenti per migliorare la struttura, per sostenere piccole attività che consentono di avere dei pur minimi introiti, per affrontare alcune spese sanitarie.
I bambini e i ragazzi un po’ più grandicelli ci hanno accolto, ci aspettano ogni mattina quando ci rechiamo nel centro e i più piccoli si contendono il “privilegio” di tenerci per mano: cercano quel contatto affettivo che la sorte ha loro negato, vengono in braccio, ci toccano e ci accarezzano, perdendosi con le loro manine tra i miei capelli così strani perché soffici al tatto, non crespi e non raccolti in tiratissime treccine (che io trovo bellissime).
Quando Sally, la sera, ci racconta le loro storie, ci si accappona la pelle: storie di abbandono, storie di povertà, storie di genitori morti in un regolamento di conti nel narcotraffico in cui erano coinvolti, storie di bambine e ragazze violate.
In tutto questo, Fannys aveva trovato una famiglia, ma la sorte si è accanita su di lei. La ricordo commossa perché siamo andati a trovarla in ospedale, in quello stanzone con 15-16 adulti ricoverati, in mezzo ai lamenti, in un’aria ovviamente mefitica e maleodorante, in cui bisogna ritenersi fortunati se non si deve condividere il letto con altri malati o se il personale non è costretto a sistemare i malati su materassi appoggiati a terra in mezzo a letti e barelle.
C’è qualcosa di straordinario nel fatto che comunque in qualche modo l’ospedale funzioni e a Fannys sono state fatte tre sedute di dialisi; è il più grande ospedale pubblico del Kenya e vi si rivolgono da tutto il Paese, mentre chi può permetterselo, o che può permettersi un’assicurazione, si cura in una delle innumerevoli cliniche private che qui costituiscono un grande business.
Poi c’è la realtà di Nestor, un medico cubano, in Kenya per un progetto della rete sanitaria panamericana: l’abbiamo incontrato in un ospedale dove abbiamo portato Nixon, forse affetto da narcolessia. I nostri “inglesi” un po’ scolastici hanno ceduto subito il passo allo spagnolo: che gioia per lui parlarlo dopo due anni in Kenya, e che sollievo per me, dato che è un idioma a me più famigliare! Gli racconto del centro, del motivo per cui io e Lallo siamo qui e mi dà immediata disponibilità a venire a visitare i bambini direttamente a Njiru. E il sabato successivo, dopo più di un’ora di taxi, arriva, li visita con pazienza, ci istruisce sulle cure, ci consiglia qualche rimedio più economico e quando gli chiedo come possiamo ricambiare la sua disponibilità mi risponde: «Essendo miei amici».
E ancora, c’è la realtà del Neema Hospital, dove lavora Maria Vittoria: andava a scuola con nostra figlia, con cui ha mantenuto i contatti e abbiamo quindi potuto rintracciarla e incontrarla nel suo ospedale dedicato alla pediatria e alla maternità. Un bel progetto che sta portando l’ospedale, sorto grazie alle donazioni, verso l’autosufficienza applicando tariffe che, pur risultando eque per chi può pagare o per chi ha un’assicurazione, riescono a coprire quasi interamente le necessità degli indigenti. Maria Vittoria lavora qui da 7 anni, unica “bianca” oltre al primario: non ha orari ed è affiancata da un’équipe interamente kenyota che opera con la stessa dedizione. Le parliamo di Fannys, le sottoponiamo gli esami, non ci lascia speranze. Neppure i nostri tentativi con organizzazioni umanitarie potrebbero andare in porto: è intrasportabile. E una settimana dopo Fannys se n’è andata e a piangerla e ricordarla ci siamo anche noi, Soshu, Gianna e Babu Lallo.