Torino. Quando l’insensibilità è bipartisan

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Nei giorni scorsi ha chiuso i battenti a Torino un’associazione la cui breve vicenda è la cartina di tornasole dell’insipienza e dell’incapacità delle istituzioni pubbliche (di ogni colore politico) di dare risposte accettabili ai bisogni e alle richieste del territorio. Si chiama (o meglio si chiamava) “Via Asti liberata” e prendeva il nome da un luogo-simbolo del capoluogo piemontese, la caserma La Marmora di via Asti 22, sede, dal 1943 al 1945, dell’Ufficio Politico Investigativo della Guardia Nazionale Repubblicana e luogo di tortura e di esecuzioni sommarie di partigiani e antifascisti. Un luogo della memoria per eccellenza dunque e, insieme, un edificio imponente, dotato di ampi spazi interni. Ebbene, quel luogo, oggi di proprietà di Cassa Depositi e Prestiti, versava (e – come si vedrà – versa) in condizioni di totale abbandono: solo alla vigilia del 25 aprile la zona antistante la lapide che ricorda le fucilazioni viene ripulita dalle erbacce per la cerimonia ufficiale del giorno della Liberazione (che resta un unicum nell’intero anno).

Tutto comincia il 18 aprile 2015 quando alcuni giovani, nucleo della futura associazione, decidono di far uscire la caserma dal degrado e dall’abbandono e di restituirla alla cittadinanza. Per farlo scavalcano il muro di cinta, entrano nell’edificio e vi si installano. Un’occupazione, dunque. Una rottura formale della legalità tesa a porre rimedio a una ben più rilevante violazione dell’interesse pubblico. Un’esperienza simile ad altre realizzate in diverse città (da Napoli a Bologna) e talora sostenute dalle amministrazioni locali. L’obiettivo è quello di valorizzare il significato storico della caserma, legato in modo indissolubile alla Resistenza, e, insieme, di dare risposte a domande ed emergenze culturali, sociali, abitative che attraversano la città. Così, nel giro di pochi giorni, vengono organizzate visite per illustrare la storia dell’edificio, si aprono un’aula studio e una mensa sociale (che servirà in sei mesi oltre 6 mila pasti caldi), vengono ristrutturati numerosi locali (offrendo, tra l’altro, alloggio a un gruppo di richiedenti asilo pakistani), sono attivati eventi culturali (tra cui un corso sulla Costituzione). A queste iniziative partecipano associazioni laiche e religiose, sindacati, cittadini e abitanti del quartiere: 150 i volontari che si alternato e oltre 5.000 i visitatori. Al solo pranzo del 1° maggio, organizzato in meno di due settimane, partecipano 600 persone. Nei mesi successivi vengono ripuliti e resi utilizzabili oltre 500mq di struttura coperta e tutto il piazzale interno, viene allestita un’area giochi per bambini, si realizzano tre mostre sulla storia della caserma, viene attivata una biblioteca di quartiere, si allestisce un piccolo orto, si effettuano proiezioni cinematografiche e teatrali. Il tutto a costo zero per le istituzioni, grazie a eventi di autofinanziamento e a donazioni. Ci sarebbe di che esserne fieri ma nel Belpaese le cose non vanno così: Cassa Depositi e Prestiti denuncia alla magistratura l’avvenuta occupazione, la giunta di centrosinistra (sindaco Fassino) manifesta una crescente insofferenza, i giornali cittadini (La Stampa e la Repubblica) conducono una vera e propria campagna contro l’illegalità in atto e il 12 novembre, dopo che nei giorni precedenti un’altra porzione dell’edifico è stata occupata da alcune famiglie Rom in attesa di sistemazione abitativa, la caserma viene sgombrata dalle forze dell’ordine.
Allo sgombero seguono promesse e rassicurazioni del Comune e della Cassa Depositi e Prestiti che la caserma non sarà oggetto di speculazione edilizia e che, anzi, l’intero complesso sarà ristrutturato con fini sociali e culturali. Il sindaco anticipa l’imminente predisposizione di un bando pubblico per un appropriato utilizzo degli spazi in attesa della ristrutturazione. Da allora sono passati oltre quattro anni e alla giunta di centro sinistra è succeduta quella del Movimento 5Stelle (sindaca Appendino) ma nessun bando per l’uso della caserma ha visto la luce, nessun progetto di ristrutturazione dell’edificio è stato attivato e la caserma è sempre più cadente. Così deperiscono le risorse pubbliche e si uccidono le iniziative di supplenza gratuita.

Ma l’associazione non si scoraggia e cerca di spostare altrove le iniziative sociali attivate in via Asti. Non è facile, nel disinteresse delle istituzioni, trovare locali idonei. Ma alla fine, dopo più di un anno, ci si riesce. Il 2 giugno 2017 si apre in Borgo San Paolo (vecchio cuore operaio della città oggi imborghesito ma con sacche rilevanti di povertà) una mensa sociale, chiamata MangiAsti, che serve pasti gratuiti a chi ne ha bisogno. I locali sono di proprietà del Comune e vengono concessi in uso dalla cooperativa che gestisce, a seguito di gara di appalto, l’intero edificio con servizi di carattere sociale. La mensa funziona e, dopo il rodaggio iniziale, vi accedono, ogni giorno, 40-50 persone (in gran parte italiani residenti in case popolari del quartiere mentre solo il 13 per cento è costituito da migranti). Nei 197 giorni di apertura, vengono serviti 7.006 pasti caldi. Anche qui la mensa è totalmente autofinanziata e gestita con il concorso di volontari (ben 180) di ogni età. All’autofinanziamento concorrono – aspetto di particolare interesse – i proventi di un ristorante popolare dove è possibile cenare versando se e quanto si ritiene in base alle proprie disponibilità. Molti dei frequentatori del ristorante sono vicini di casa del quartiere e il significato sociale dell’esperienza è riconosciuto dal Banco alimentare, da Slow Food e da operatori del settore alimentare che vi collaborano fornendo cibo e bevande.
Ma anche in questo caso la storia non è a lieto fine (https://volerelaluna.it/territori/2018/04/04/accade-a-torino/). Alla scadenza dell’appalto della cooperativa la Circoscrizione (a guida PD) non predispone alcun bando per la nuova gestione dell’edificio e rifiuta di concedere a “Via Asti liberata” l’uso dei locali fino alla loro assegnazione. Così la mensa chiude con la conseguenza, del tutto paradossale, dell’abbandono dei locali a un degrado che si protrae tuttora (a quasi due anni da allora, essendo andato deserto l’unico bando predisposto) e, parallelamente, dell’interruzione di un servizio che ha affrontato concretamente situazioni di disagio ignorate dalla Circoscrizione. A farne le spese sono, ancora una volta, persone in grave difficoltà.

È una storia istruttiva, in cui dire che si tratta di mala amministrazione è dir poco. C’è, infatti, di più considerando che la cornice della vicenda è una città in cui l’aumento dei clochard per le strade, le serrande di molti negozi definitivamente abbassate, la crescita degli accessi alla Caritas e ai servizi sociali mostrano anche ai ciechi una sofferenza sociale insostenibile. Il commento è semplice: come stupirsi che i cittadini smettono di credere nelle istituzioni?

Gli autori

Livio Pepino

Livio Pepino, già magistrato e presidente di Magistratura democratica, dirige attualmente le Edizioni Gruppo Abele. Da tempo studia e cerca di sperimentare, pratiche di democrazia dal basso e in difesa dell’ambiente e della società dai guasti delle grandi opere. Ha scritto, tra l’altro, "Forti con i deboli" (Rizzoli, 2012), "Non solo un treno. La democrazia alla prova della Val Susa" (con Marco Revelli, Edizioni Gruppo Abele, 2012), "Prove di paura. Barbari, marginali, ribelli" (Edizioni Gruppo Abele, 2015) e "Il potere e la ribelle. Creonte o Antigone? Un dialogo" (con Nello Rossi, Edizioni Gruppo Abele, 2019).

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