Lemlem è una giovane donna etiope. Ha visto tutto: la Libia, il mare, la morte della sorella annegata nel viaggio verso Lampedusa, Porto Empedocle, Crotone. Poi, finalmente, Riace, dove ha trovato un approdo per sé e per i suoi figli e un compagno, Domenico Lucano. Quando tutto è esploso anche lei è stata imputata degli stessi reati contestati a Lucano e ad altre 29 persone e di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina per avere tentato di far entrare in Italia suo fratello mediante un matrimonio combinato. E anche lei è stata raggiunta da una misura cautelare: il divieto di dimorare a Riace, poi curiosamente sostituito, dal Tribunale del riesame, nell’obbligo di risiedervi e in quello, contestuale, di recarsi due volte al giorno a firmare, per attestare la sua presenza, nella caserma dei carabinieri.
Non basteranno tutti i giorni che rimangono da vivere per potersi scusare con lei. Per potersi rendere conto (ognuno singolarmente) della gravità di un comportamento sessista, volgare, di accanimento contro di lei: una giovane donna che ha la colpa di essere etiope, bella e fiera, con un carattere forte indurito dalla vita. E continueranno i colori a fare contrasto fra ginestre e mare e rendere bella questa terra di Calabria capace di grandi abbracci e di profonde miserie. Tutto continuerà a scorrere come le parole, tante, troppe, dette per riempire giornate e vite di niente. Più facile dar corpo a storie che diventano sempre più morbose, appetibili, grondanti di particolari e se inventati meglio, fanno colore.
Lei – Lemlem –, finita nell’inchiesta Xenia insieme ad altre 29 persone, fin da subito viene presa di mira, capro espiatorio di tutti i mali successi in quel piccolo paese conosciuto nel mondo. Sbattuta in prima pagina, alla gogna. Pruriti di personaggi meschini. Uomini e donne tarantolati costruiscono maschere di ogni genere per potersi inventare il lusso di intervenire sulla faccenda.
Ma poi, erano tali i reati che questa giovane donna aveva accumulato, era tale la sua pericolosità da meritarsi un trattamento particolarmente punitivo e restrittivo? Due firme al giorno in caserma in orari stabiliti.
Per sei mesi la sua vita segnata e umiliata, il quotidiano scandito e legato con l’elastico e il filo spinato a quelle firme.
Finalmente, nel giorno in cui arriva la notizia (non notizia), della richiesta di rinvio a giudizio nell’inchiesta Xenia (qualcuno aveva forse pensato che tutto questo ambaradan sarebbe finito con un invito a cena?), ecco un piccolo spiraglio non di umanità ma di ritrovato buonsenso. La sesta sezione penale della Corte di cassazione, accogliendo il ricorso dei difensori, annulla senza rinvio la misura cautelare dell’obbligo di firma e dichiara cessata l’efficacia della misura.
È piccolo sollievo per la Calabria che non si arrende. Una Calabria che esiste fra gli insegnanti, fra gli studenti, una speranza per le nuove generazioni. Fra i tanti messaggi scritti, registrati, inviati per email o postati sui social, c’è stato un video realizzato da Selene Gatto e Giuseppe Caracciolo che ha avuto migliaia di visualizzazioni. Frutto del lavoro di alcuni studenti e insegnanti. L’immagine riprende il mare di Calabria, in primo piano alcuni studenti, camera fissa, sguardo deciso: «Siamo un gruppo di ragazzi che studiano il greco di Calabria e il greco del Salento e proprio studiando queste lingue ci siamo resi conto che c’è un errore madornale alla base dell’operazione contro il sindaco di Riace. L’operazione è stata chiamata Xenia, favoreggiamento di immigrazione clandestina. Se però le persone che hanno condotto l’operazione avessero studiato e conosciuto l’essenza della Calabria, che è rappresentata giornalmente nelle azioni di Mimmo Lucano, allora si sarebbero accorti immediatamente che Xenia non significa favoreggiamento. Xenia viene da Filoxefia che è l’amore per lo straniero».