Gli scheletri nell’armadio dei paladini della libertà di stampa

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Se si discute della libertà di stampa è necessario sottolineare l’analisi internazionale di Reporters sans frontieres che posiziona l’Italia al 46° posto mentre Freedom House la colloca al 62°. La diversità del punteggio dipende dai diversi meccanismi di calcolo, ma il dato è comunque preoccupante perché entrambe le classifiche ci posizionano in coda rispetto agli altri Paesi Europei.

L’aspetto più grave è sicuramente il controllo economico che i grandi gruppi finanziari e industriali esercitano sui principali quotidiani nazionali, condizionandone pesantemente le linee editoriali ormai omogenee, al punto che il Corriere della Sera, La Stampa e Repubblica possono essere definiti il “Giornalone Unico”, e volte a formare e condizionare l’opinione pubblica invece di informarla.

Il controllo delle linee editoriali si è consolidato, nel corso degli anni, anche con una brutale precarizzazione del settore giornalistico: oltre il 50 per cento dei giornalisti opera nel precariato, spesso come CO.CO.CO (collaborazione coordinata continuativa), senza diritti e con retribuzioni più che disoneste. In queste condizioni diventa impossibile informare aiutando la crescita della capacità critica, e la maggioranza dei giornalisti “canta nel coro”, pena l’emarginazione professionale o peggio il non rinnovo del già precario rapporto di lavoro.

Il discorso non vale per i giornalisti affermati e le “grandi firme” che scrivono gli editoriali, che non si curano delle enormi difficoltà dei loro colleghi precari ma difendono una serie di privilegi economici e di status sociale in cambio di garanzie sulla linea editoriale da tenere, e spesso sono in televisione a pontificare banalità dall’alto delle loro belle giacche e camicie, con colletto inamidato e con cravatta intonata, piccoli ma significativi simboli della loro distanza dalla vita reale dei cittadini.

Gli anni di lotta del movimento NO TAV hanno svelato a molti l’inganno di questa falsa informazione già altra volta segnalata, nel senso che l’essere direttamente all’interno di importanti momenti di lotta sociale e vedere poi sui giornali l’artefatta, imprecisa e scorretta ricostruzione di ragioni ed eventi ha fatto capire che la realtà è, quasi sempre, l’opposto di quello che si legge sui giornali.

La sfiducia genera distacco: di conseguenza si comprano meno quotidiani, spesso solo con lo spirito di leggere cosa sostiene “l’avversario”.

Non è certo da condividere l’insulto come forma di critica politica ma le recenti polemiche sulla libertà di stampa, nate dal “giornalisti puttane” di Alessandro Di Battista, troppo semplificativo rispetto alla complessità del mondo dell’informazione, merita alcune riflessioni.

Intanto non è un insulto nuovo: Pier Paolo Pasolini lo usò, ben più pesantemente, nei confronti di Piero Ottone direttore del Corriere della Sera nei primi anni Settanta, definendolo «una triviale e laida puttana» e affermando «sarebbe ora che ti vergognassi per quello che “fai” scrivere ai tuoi disonesti redattori». Erano però altri tempi e Piero Ottone, che comunque cercava di modificare la linea conservatrice del “quotidiano della borghesia” (di quegli anni si ricordano anche una serie di importanti inchieste, a firma di Giuliano Zincone, sulle pesanti condizioni di lavoro nelle fabbriche dal titolo “La pelle di chi lavora”), accettò la critica e poi non ebbe problemi a iniziare una collaborazione giornalistica, scomoda ma incisiva, con Pasolini.

Altri tempi, appunto: segnati da un conflitto sociale e da una forte coscienza di classe (oggi assenti) che chiedevano, e in parte imposero, positivi e radicali cambiamenti sui posti di lavoro come nei costumi sociali.

Oggi invece i quotidiani sono chiusi a qualunque confronto dialettico e a qualunque critica, subito tacciata di attacco alla libertà di stampa, e difendono una “libertà” che in realtà è solo la difesa delle campagne mediatiche che rispondono alla linea e agli interessi finanziari degli editori.

Lo si può verificare, ad esempio, proprio nella strenua difesa delle Grandi Opere a prescindere dalla loro utilità. Il “Giornalone unico”, per esempio, ha sempre evitato di dare spazio alle ragioni del Movimento NO TAV, puntando al contrario alla sua emarginazione e criminalizzazione anche attraverso l’enfatizzazione degli scontri al cantiere di Chiomonte, conseguenza della stolta scelta della militarizzazione dell’area con l’impiego dell’esercito.

In questa campagna contro il Movimento NO TAV si arrivò addirittura allo scandalo delle “email civetta”, scritte sotto falsa identità e uscite dal server della Stampa, inviate a militanti NO TAV a fini di provocazione e intimidazione, all’indomani della grande manifestazione del luglio 2011. A fronte di ciò non fu possibile neppure un incontro, pur ripetutamente richiesto, con il direttore. Nessuna spiegazione, dunque, ma una sorta di sistematico insabbiamento, avallato dall’Ordine dei giornalisti del Piemonte, dal silenzio “solidale” della categoria e dall’archiviazione delle denunce presentate alla Procura della Repubblica di Torino.

Fa quindi sorridere vedere Mario Calabresi, allora direttore della Stampa e oggi di Repubblica, ergersi a paladino della libertà di stampa, dimentico del fatto che quella libertà impone prima di tutto, e proprio da parte dei giornalisti, trasparenza e correttezza nei confronti dei lettori.

Gli autori

Giovanni Vighetti

Giovanni Vighetti vive a Bussoleno ed è esponente del Movimento No Tav

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