La crisi della città del lavoro

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Presentazione
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Appunti dal fronte: la crisi della città del lavoro[1]

Andrea Aimar

Per molti aspetti è come visitare una città colpita dalle conseguenze di una guerra. Ci sono le macerie, le memorie di prima, i caduti, i feriti e qualcuno che tenta di ripartire. Solo che questa guerra, fredda e calda insieme, dura da molti anni e non accenna a terminare. Per alcuni decenni le parti in conflitto sembravano in equilibrio, ognuna dava l’impressione di poter vincere. Dopo no. La classe che sta in alto ha cambiato marcia e ha messo alle corde il proprio avversario. Wolfgang Streeck li ha chiamati, con una felice espressione per un infelice periodo, i «trenta penosi»[2]: gli anni della «lotta di classe dopo la lotta di classe»[3], quelli venuti dopo i «trenta gloriosi» dello sviluppo del dopoguerra, del benessere e dei maggiori diritti. Almeno qua, dalle nostre parti.

È il lavoro la città[4] post bellica che i dispacci dal “fronte” raccolti in questa pubblicazione vogliono provare a raccontare. Sono dei frammenti, delle analisi su parti del problema, a volte incursioni o testimonianze raccolte con lo spirito da inchiesta. C’è, come forse nei primi geografi, il tentativo di comprendere le conformazioni di un territorio duramente modificato e poco conosciuto. Le mappe, quelle di prima, risultano parziali, così si provano a tracciare linee per longitudine e per latitudine: un lavoro preparatorio per ritrovare delle coordinate, quelle che aiutano a orientarsi e a non girare a vuoto, senza capire.

La Storia con la sua narrazione obbliga sempre a ricercare date simboliche, episodi spartiacque. La nostra «città del lavoro» di attacchi ne ha subiti parecchi. Potremmo usare, come spesso si è fatto, i 40mila (a prescindere da quanti realmente fossero) in marcia a Torino il 14 ottobre 1980 o i 98 della direzione della National Union of Mineworkers (NUM) che il 3 marzo 1985 votarono per la fine dello sciopero dei minatori inglesi ratificando una sconfitta definita, per l’appunto, storica. La «Lady di Ferro» Thatcher e «l’Avvocato» Agnelli nella parte dei vincitori a inaugurare una nuova fase dove il capitale, e coloro che lo detengono in grandi quantità, decidono di rompere il patto sociale chiamandosi fuori. Ma le sconfitte operaie sono un pezzo del racconto perché la città del lavoro di oggi non la si può descrivere, e quindi comprendere, senza Nixon che il 15 ottobre 1971 mette fine agli accordi di Bretton Woods: non più cambi fissi e stabilità monetaria, via le limitazioni ai movimenti di capitali. Il Nixon del 1971 è la levatrice dei vari provvedimenti che definiranno lo strapotere del capitalismo finanziario passando anche per la nostra Europa modellata a Maastricht e la fondazione della World Trade Organization (WTO) il 1 gennaio 1995. In quegli anni di fine gloria, come ciliegina su di una torta amarissima, c’è anche la crisi energetica del 1973 che inizia a svelare la seconda crisi del capitalismo, pressante e radicale come quella sociale: la crisi ecologica.

C’è nel 1980 torinese e italiano un aspetto che precede i picchetti, la marcia e spiega con dura semplicità il “dopo”. È il contenuto del comunicato della direzione della FIAT, quello che il 28 luglio 1980 poco prima della chiusura estiva anticipa il caldo torrido dell’autunno che verrà. Si legge, in quello che sarà l’antipasto ai licenziamenti e alla cassa integrazione: «Si tratta di adeguare la forza lavorativa alla situazione di mercato»[5].

Le pagine che seguono sono la descrizione di una “città del lavoro” adeguatasi «alla situazione di mercato». Non si comprendono i dati, gli scenari, le storie, le riflessioni che leggerete senza questo profondo processo di strapotere dei mercati nella definizione delle scelte politiche degli ultimi decenni. Il mercato e le sue ragioni che diventano l’unico e incontrastato meccanismo di regolazione sociale. Un mercato sempre meno espressione di un capitalismo produttivo e sempre più cifra di un capitalismo finanziario: i soldi producono altri soldi senza passare dalla produzione e dall’economia “reale”.

Il pensiero unico, in cui si sono riconfigurate tutte le principali famiglie politiche socialiste e socialdemocratiche, ha in questi decenni dettato i ritmi e giustificato il tutto in nome di una modernizzazione necessaria. E quel mondo prima celebrato, la civiltà del lavoro su cui si basavano welfare e diritti, è stato progressivamente cancellato: lo spostamento di ricchezza dai salari ai profitti e il conseguente aumento della disuguaglianza sociale; l’intensificazione dei ritmi di lavoro, dopo decenni di progressiva riduzione, a fianco alla crescita della disoccupazione; il peggioramento delle condizioni in cui, chi un’occupazione la ha, ci si trova a lavorare; la globalizzazione dei mercati e le delocalizzazioni produttive. In questo declino si sfaldano anche le antiche e nuove solidarietà, si frammentano i legami sociali e si ricorre sempre meno all’azione collettiva per cercare delle risposte. Ora che la sbronza modernizzante sembra parzialmente affievolirsi, perché il mercato globale si mostra con la ferocia delle promesse tradite, paiono riemergere vecchi e nuovi bisogni di nuovo in grado, forse, di farsi discorso pubblico e, si spera, politica.

Nei contributi di questa fatica intellettuale collettiva troverete le tracce della crisi della città del lavoro: dalla Costituzione tradita (Alessandra Algostino) al racconto della precarietà e della frammentazione delle filiere produttive (Francesco Ciafaloni), il tutto dentro una cornice di “riscoperta” del concetto di alienazione (Enrico Donaggio e Peter Kammerer). Le testimonianze raccolte a lavoratori e lavoratrici rappresentano dei carotaggi in alcuni mestieri che restituiscono, in racconti di lavoro e di vita, uno spaccato “interno”: “Un autista della logistica”, “Una commessa di un supermercato”, “Una traduttrice nella piattaforma”, “Un operaio di una grande fabbrica”.

Il tempo sottratto in una prospettiva a veduta aerea è al centro dell’articolo di Fulvio Perini, così come la bellissima intervista di Meritxell Rigol a Cosima Dannoritzer autrice del documentario «Thieves of Time». Mentre Matteo Gaddi e Riccardo Barbero affrontano la questione principe di questi anni: l’innovazione tecnologica e il suo impatto sul lavoro. Questa raccolta di scritti – grazie in particolare ai contributi di Toni Ferigo, Francesco Ciafaloni, Silvana Cappuccio, Ettore Gilozzi e Fulvio Perini – hanno il merito di allargare lo sguardo sul lavoro a livello globale. Un’operazione necessaria sia per guardare al fatto che la nostra occidentale economia immateriale vive grazie alla dura materialità di economie subalterne alla nostra. La geografia, questa sì vera e non metaforica, del lavoro restituisce anche un maggiore equilibro alle discussioni sulla completa “uscita dal Novecento” e da quel lavoro fatto di evidente sfruttamento che noi siamo abituati relegare alla memoria dei nonni. Il pezzo di Silvana Cappuccio, in particolare, chiama in causa la responsabilità dei nostri interessi e ci ricorda la velocemente dimenticata strage di Rana Plaza. Ferruccio Pastore dalla sua, sempre con uno sguardo non chiuso entro i confini nazionali, riannoda i fili della discussione sull’immigrazione e del suo apporto reale alle nostre economie.

Insomma c’è moltissimo in questi contributi, manca forse una certa organicità ma rappresenta un pedaggio da pagare se si prova ad affrontare, tutti insieme, molti nodi contemporanei. La frammentarietà e la frantumazione del mondo che si analizza la si ritrova anche nelle pagine che provano a descriverlo. Sono più le domande che le risposte ma questa era l’ammissione di colpa in partenza da parte di coloro che hanno lavorato a questi articoli. Se le domande siano o meno corrette lo lasciamo al giudizio di chi leggerà.

Un’unica, ultima, avvertenza. Si ha le tendenza, quando si parla del mondo del lavoro da una certa prospettiva, a indossare quasi immediatamente gli abiti della nostalgia e della sindrome da sconfitta. Intendiamoci: dopo uno sguardo ai processi storici e alla situazione attuale è difficile rimanere allegri. Ma, in una citazione forse troppo abusata, preferiamo vestire i panni dell’«ottimismo della volontà» gramsciano che lotta, corpo a corpo e strenuamente, con il «pessimismo della ragione». Un conto è quindi la memoria, importante e necessaria, di stagioni politiche e sociali piene di entusiasmi, altro è la nostalgia che immobilizza perché fa del passato un luogo fisso nel tempo e, per sua natura, immobile. La nostalgia non fa immaginare il futuro e noi di quest’ultima facoltà abbiamo estremo bisogno.

Immaginare futuro significa anche riprendere ciò che considero una ricerca interrotta: ovvero la capacità del mondo sindacale e politico di immaginare proprie forme di organizzazione del lavoro che restituiscano dignità allo stesso e rispondano alla domanda «cosa significa produrre “in quanto uomini”?»[6]. La questione, detta prendendo a prestito una metafora calcistica, è tentare di smettere di giocare in difesa e di «fare catenaccio» come unica possibilità. Sarebbe bello, sempre con lessico pallonaro, allenarsi al «gioco totale» come l’Olanda di Cruijff. Tutti/e a difendere e attaccare allo stesso momento, pressing alto e poco spazio alle scorribande avversarie. Quindi bene i piani rivendicativi e le richieste, bene denunciare ciò che accade e mostrare le ingiustizie ma credo che abbiamo bisogno di orizzonti che profumino di liberazione. Ciò significa recuperare la capacità di immaginare mondi, anche perché oggi se ci chiedono qual è l’alternativa a questo capitalismo le parole sono troppo incerte e le pratiche ancora più fragili (seppur non manchino). Abbiamo bisogno di una strategia d’attacco che metta sul piatto le alternative: i modi diversi di produrre e consumare che abbiano al centro l’essere umano e l’ambiente. Una propria idea di organizzazione del lavoro, della produzione di ricchezza e di redistribuzione della stessa già nel momento in cui viene realizzata e non solo a valle del processo. Servono idee, vecchie e nuove, e servono strumenti. Serve lo Stato o un suo equivalente, ovvero serve un’istituzione (chiamatela come volete) che sappia contendere al mercato una diversa regolazione dell’economia. Per farlo le leve pubbliche devono tornare in disponibilità dei processi democratici. Non è necessario essere dei sovranisti (quando abbiamo iniziato a usare le parole degli altri?) per capire che fino a quando il potere di battere moneta e quello di fare politica economica non ritornano in capo a dei processi democratici abbiamo un problema grosso come una casa. Sembra poco, ma io ripartirei da lì e dalle lezioni di uno dei torinesi che più manca e di cui mi sento anche io, un pochetto, nipote acquisito: Luciano Gallino.


SOMMARIO:

Riflessioni sull’alienazione oggi

Continuare la ricerca sul senso del lavoro – Enrico Donaggio e Peter Kammerer

Il mutamento delle condizioni di vita, le forme di resistenza, quando il posto di lavoro si frantuma – Francesco Ciafaloni

La Costituzione dalla parte del lavoratore al lavoratore nudo della gig economyAlessandra Algostino

Allegato – Esperienze: (Un autista della logistica / Una commessa di un supermercato / Una traduttrice nella piattaforma / Un operaio di una grande fabbrica)

Il lavoro nella società mondo

Lavoro e globalizzazione, continuità e discontinuità nella storia – Ettore Gliozzi

Rana Plaza, cinque anni dopo. Quelle false promesse che non crollano mai – Silvana Cappuccio

Uno sguardo al lavoro nella società mondo – Fulvio Perini

Nella nostra parte del mondoFulvio Perini

Nomadi nello spazio

La vecchia e la stampella: considerazioni sull’Italia e il lavoro immigrato – Ferruccio Pastore

Uno sguardo nel mondo. L’incendio di Grenfell Tower. Una tragedia operaia – Francesco Ciafaloni

Migranti senza confini nel Sahel – Toni Ferigo

Migrazioni – Francesco Ciafaloni

Espropriati del tempo

Contro l’uso arbitrario del tempo, non solo quello del lavoro Fulvio Perini

“Thieves of Time”. Intervista a Cosima Dannoritzer – Meritxell Rigol

Lavoro, macchine e democrazia

La riflessione sull’uso delle macchine che trattano informazioni – Riccardo Barbero

Nuove tecnologie e democrazia – Matteo Gaddi


 

 

NOTE:

[1] L’ideazione di questa raccolta di contributi e la selezione degli stessi è opera di Fulvio Perini.

[2] Wolfgang Streeck, Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico, Feltrinelli, Milano 2013.

[3] Il riferimento è al libro di Luciano Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe. Intervista a cura di Paola Borgna, Laterza, Roma-Bari 2012.

[4] L’omaggio è a Bruno Trentin, La città del lavoro. Sinistra e crisi del fordismo, Feltrinelli, Milano 1997.

[5] Diego Novelli (a cura di), Testimoni del nostro tempo: Ieri Oggi Domani, Daniela Piazza Editore, Torino 2015.

[6] Enrico Donaggio e Peter Kammerer citando Marx nel contributo prestato in questo volume.

 

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