Migranti: i nuovi schiavi dell’agricoltura italiana

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1. Lo scopo di questo scritto è quello di denunciare il modello agricolo italiano che si sostiene sullo sfruttamento illegale e inumano di una forza lavoro prevalentemente migrante.
In sostanza, voglio parlare della dignità umana dei migranti che arrivano in Italia con la speranza di trovare un lavoro decente per aiutare se stessi e i propri cari, ma vengono poi a ritrovarsi in situazioni di grave sfruttamento lavorativo o di vera e propria schiavitù. Spesso questi lavoratori sono costretti – anch’io sono stato uno di loro – ad accettare lavori che sono al di sotto non solo della normativa italiana o delle garanzie previste dalla legislazione UE, ma che contraddicono i più elementari diritti umani. La maggior parte di loro sono in fuga da insicurezza politica, povertà e disoccupazione, e si ritrovano esposti in Italia a condizioni e pratiche simili alla schiavitù.

2. Nel settore agricolo in Italia vengono impiegati per eseguire lavori “non qualificati” e poco qualificati sia braccianti regolari che migranti irregolari. Di solito si tratta di lavoratori in movimento per lavori stagionali come pulizia, giardinaggio, decorazione, potatura, raccolta di frutta, verdura e olive nelle quattro stagioni. A nord e a sud della Penisola, questi lavoratori migranti vivono per lo più in ghetti e case abbandonate, e vengono reclutati prevalentemente a giornata da caporali e datori di lavoro. I lavori offerti in queste circostanze sono perlopiù precari, non dichiarati, senza contributi assicurativi, e senza alcuna garanzia per la salute.
Vividi esempi di questo fenomeno sono le donne e bambini di Romania, Bulgaria e Albania che lavorano per 10 ore al giorno e oltre a raccogliere agrumi a Rosarno in Calabria per 3 euro e mezzo o meno all’ora o al paniere, gli uomini dell’Africa sub-sahariana reclutati come braccianti “non qualificati” o meglio “dequalificati” che raccolgono pomodori e arance nella Piana di Catania e a Vittoria in Sicilia per salari inferiori agli standard legali, i maghrebini di Nardò (Lecce) che lavorano sette giorni alla settimana in una vita senza mai ferie, i raccoglitori di kiwi provenienti da India, Pakistan e Bangladesh che in provincia di Latina sono reclutati e ospitati in situazioni deplorevoli che feriscono la loro dignità come esseri umani e i loro diritti come lavoratori.
Non si tratta solo di Nike o di Monsanto, quando si pensa alle forme contemporanee di schiavitù, cioè di grandi multinazionali che sfruttano popolazioni locali in Paesi lontani: in Italia, la schiavitù è quella del migrante che seleziona uva da tavola nelle campagne di Napoli durante la vendemmia, o che si arrampica sugli alberi di olivo durante l’abbacchiatura, o dei minori Rom che raccolgono arance fianco a fianco con i loro genitori per 8-10 ore al giorno.
Basti pensare alle controversie su un prodotto di fama mondiale, il pomodoro italiano, il cosiddetto “diamante rosso” in vendita nel mercato globale, rosso del sangue versato dal lavoro minorile, dal traffico di esseri umani da sfruttare nei campi, dalle uccisioni e sparizioni di migranti la cui morte per affaticamento e/o vessazione è spesso certificata come “naturale”.

3. Mentre gli Stati si riservano l’autorità “legittima” di amministrare la migrazione come meglio si confà ai loro interessi, la politica dei diritti umani e le agenzie internazionali affermano che il modo in cui gli Stati trattano i loro lavoratori migranti non è esclusivamente una questione nazionale. Sono tantissime le testimonianze raccolte da enti come ILO, Amnesty International, FLAI-CGIL, Médecins Sans Frontières, IOM, Caritas, le inchieste giornalistiche e i contributi accademici che hanno tutti alimentato il lungo ma ancora acceso dibattito su cosa veramente avviene nei campi agricoli italiani: su cosa realmente produce questi ghetti e cosa traspare da queste baraccopoli, sui trattamenti disumani dei lavoratori migranti, tanto degradanti da rammentarci appieno la tratta degli schiavi africani di memoria britannica e portoghese. Ora come allora, la riduzione in schiavitù dei giovani neri africani risponde ai crescenti bisogni dei consumatori europei e nordamericani, i cui stomaci erano e sono dipendenti da manodopera schiavizzata. La maggior parte di noi migranti oggi è arrivata coi canali del traffico di esseri umani, molti di noi sono stati contrabbandati, altri venduti in schiavitù prima di finire nei campi italiani. Solo pochi di noi sono arrivati regolarmente, per poi venire anche loro sfruttati in modo irregolare.
Non ci sono dati ufficiali sul numero dei lavoratori agricoli irregolari: dal momento che noi come migranti siamo segregati istituzionalmente, siamo diventati invisibili anche nelle statistiche. Tuttavia, la FLAI-CGIL (2018) stima tra 400.000 e 430.000 i lavoratori nel settore agricolo che sono clandestini, e sono dunque maggiormente esposti allo sfruttamento e agli abusi sul lavoro attraverso il sistema del caporalato. Di questi lavoratori, oltre 132.000 versano in condizioni di grave vulnerabilità sociale e grave sofferenza occupazionale.
Queste cifre non sono diminuite negli anni, come dimostrato dagli studi di Medici Senza Frontiere o della Caritas, che provano uno sviluppo progressivo delle agromafie con un tasso attuale del 39% di lavoratori irregolari in agricoltura. Secondo Amnesty International (2012), e ILO (2016), i lavoratori agricoli e in particolare i migranti, sono quelli maggiormente oppressi nell’Italia odierna, e spesso subiscono abusi fisici e psicologici sul lavoro, e nei casi più estremi (ma non per questo così rari) vivono in condizioni definibili come “schiavitù”. Molti di loro lavorano contro il loro volere in gravi condizioni di violenza e di minaccia di punizioni che degradano la loro dignità umana.
Di solito, il raccolto, l’abbacchiatura, la vendemmia, sono i momenti che più chiaramente mettono in luce quanto precaria sia la vita delle migliaia di lavoratori migranti che vivono tra ghetti e campi agricoli. La violenza intrinseca di un basso salario imposto attraverso il controllo delle bande agromafiose, complice l’inerzia del governo italiano, è testimoniata dalle immagini degradanti di magazzini ed edifici abbandonati trasformati in baraccopoli sovrappopolate, e case in container prive di elettricità, acqua corrente e servizi igienico-sanitari adeguati. Ma nonostante queste prove schiaccianti e l’introduzione di misure legislative specifiche contro il caporalato, i lavoratori migranti sono ancora tenuti in condizioni di schiavitù sotto continue minacce, coercizione, violenza e manipolazione. Le morti non sono rare, pur se nella maggior parte dei casi vengono certificate come “naturali”.

4. Che sia a Saluzzo, Cuneo, all’ex-Moi di Torino, a Orta Nova vicino Foggia, a Rosarno, a Gioia Tauro, nella Piana di Sibari in Calabria, in Sicilia a Vittoria, Trapani, Campobello di Mazara (ribattezzato “Campobrutto” dall’arguzia dei migranti), in tutta la Penisola sorgono spaventosi quartieri per immigrati che non possono permettersi di affittare case nei quartieri degli italiani o non ne hanno i requisiti (documenti e così via). Sono luoghi di frustrazione, mantenuti dall’oppressione, e forieri di depressione, infestati da ratti, rane e insetti che causano gravi minacce alla salute, dove i migranti usano cartoni, bastoni, vecchi panni, letti e materassi per forgiare un posto in cui vivere senza la maggior parte dei servizi di base. E le immagini dei ghetti italiani ripropongono quelle dei ghetti di Paesi lontani da cui alcuni dei migranti sono fuggiti.
Tutti gli abitanti del ghetto prevedono di starci per breve tempo, ma tanti sono poi costretti a rimanere per mancanza di alternative, e restano lì per anni, mentre i ghetti si estendono e diventano piccole città. In alcuni di essi, i caporali danno in affitto malsani materassi di seconda mano, e vendono acqua ed elettricità, sottraendone il prezzo dai salari dei lavoratori, o li costringono a comprare in supermercati prescelti con dei “buoni” dati invece del giusto salario. I ghetti si trovano spesso nelle aree agricole per scopi di prossimità, e comunemente fuori dalle zone abitate dalla gente del posto, ma non sempre. Alcuni si possono rinvenire ben dentro la città, in edifici abbandonati come l’ex-Moi di Torino, che fino a poco tempo fa ospitava oltre un migliaio di migranti che lavoravano tra Saluzzo, Cuneo e altre aree del Piemonte. Molti di loro sono miei amici, che vivono segregati in questa sorta di prigioni economiche spesso privi di contatti umani con i residenti italiani. Sono queste condizioni di vita che facilitano la violenza fisica e la vulnerabilità psicologica, la disperazione delle donne e dei giovani, le malattie, le instabilità mentali e le tossicodipendenze, il crimine, il commercio sessuale. I ghetti sono la tragedia rivelatrice del modello di integrazione italiana e di un modello di produzione agricola in cui i trattamenti degradanti non sono un’eccezione, ma il fulcro di un sistema che ha bisogno di schiavi senza diritti.

5. In quanto fenomeno nazionalmente diffuso, il contrabbando, lo sfruttamento, l’asservimento e la schiavitù quali pratiche all’interno del modello agricolo italiano, sono studiati con diverse motivazioni e obiettivi, utilizzando diversi strumenti e approcci.
Tra essi, l’analisi neoliberale esita ad affermare che queste pratiche possano tecnicamente definirsi come “schiavitù”, cercando invece di farle rientrare in modelli più tradizionali di sfruttamento del lavoro e di “assoggettamento”, e intendendone gli aspetti morali come irrilevanti. La presunzione neoliberale dell’assenza di schiavitù nell’Italia contemporanea è modellata sulla tradizionale definizione legale di “schiavitù”, che rimanda a concezioni antiche, quando i neri africani asserviti erano marchiati con ferri ardenti con le iniziali dei nomi dei loro padroni sul corpo, come se fossero vacche o oggetti di proprietà. Ma ora che le nostre condizioni materiali e politiche sono cambiate, lo deve essere anche la nostra percezione di cosa significa schiavitù, e infatti, occasionalmente, studi indipendenti, inchieste giornalistiche e resoconti delle ONG, oltre che le mie personali interviste e ricerche sia sul campo che a tavolino, ci mostrano immagini di odierna schiavitù in tutta Italia.

6. Oggi lo sfruttamento nell’agrobusiness italiano è uno strumento fondamentale della mafia e delle multinazionali per massimizzare il profitto, dimostrare il proprio potere, e perpetuare l’oppressione dei lavoratori precari. Questo grossolano sfruttamento della popolazione prevalentemente migrante in uno dei principali settori produttivi nazionali non è casuale, e le sue caratteristiche capitalistiche lo presentano come proficuo modello di produzione piuttosto che come l’emergenza propagandata dai politici di destra e di sinistra indifferentemente.
I recenti flussi di lavoro migrante attraverso il Mediterraneo dal 2008-2009 hanno sostenuto lo sviluppo agricolo italiano con manodopera migratoria illegale e non libera. È stato sulle spalle di questi migranti, donne, uomini e bambini che l’Italia è diventata uno dei maggiori esportatori di pomodori al mondo, seconda solo agli Stati Uniti. Gli afflussi attraverso il Mediterraneo avvantaggiano l’Italia rispetto agli altri Paesi dell’UE fornendo lavoro a basso costo, e incentivando un rapido accumulo di profitti per le poche mani private o liberi riders del lavoro migrante in agricoltura. Poche grandi società e ricchi privati sono riusciti a legittimare questo metodo di produzione perlopiù monocolturale che si nutre di sfruttamento.
Così, l’Italia mantiene il proprio primato nella produzione di frutta, verdura, vino, olive a livello europeo. Ma ciò che viene spesso trascurato sono gli effetti diffusi dello sfruttamento derivante da questo tipo di produzione sulla vita delle sue vittime e dei loro discendenti. E ora – magia della globalizzazione! – i tanti consumatori africani dei prodotti agricoli italiani partecipano allo sfruttamento dei propri fratelli e sorelle semplicemente acquistando pomodori, arance o vini italiani nei supermercati in Nigeria, in Sudafrica e così via.
Oggi i pomodori italiani vanno nei mercati e nelle industrie di trasformazione come se fossero stati coltivati e raccolti da lavoratori non sfruttati, e non come talora accade da minorenni nei campi campani e pugliesi, nell’indifferenza del consumatore disinformato, mentre l’olio d’oliva del suo marchio preferito proviene dal sudore non retribuito dei senegambiani del ghetto di Campobello di Mazara in Sicilia.
Molti sono i lavoratori africani che nell’Italia di oggi vedono perpetuato il retaggio della schiavitù portato sulle spalle di generazione in generazione: le politiche e le credenze discriminatorie razziali sono ancora sorprendentemente prevalenti, e l’emarginazione di lavoratori prevalentemente neri in lavori sporchi, noiosi e pericolosi ne sono prova, e tantissimi sono i laureati africani in Italia definiti per ragioni di comodo “lavoratori non qualificati”. Come molti altri migranti nell’agricoltura italiana di oggi, i lavoratori africani hanno sofferto di omicidi insensati, incarcerazioni, discriminazioni in materia di occupazione e alloggi, e in definitiva di disumanizzazione.

7. Questi sono effetti, a mio avviso, della natura capitalistica della produzione agricola italiana incentivata da un lato dagli apparati statali, e dall’altro dall’Unione Europea che non riesce a prevenire il caporalato e il traffico di manodopera e a proteggere i lavoratori migranti da datori di lavoro fraudolenti e da mediatori del lavoro chiaramente mafiosi.
E questo dopo il rapimento in secoli non lontani di almeno 15 milioni di giovani uomini, donne e bambini neri per sostenere la produzione coloniale europea, e in tempi ancora più recenti la sua produzione industriale, lasciando all’Africa il peso di guerre, conflitti tribali, disastri naturali, povertà strutturale e governi dittatoriali che hanno costretto tanti dei suoi abitanti a migrare.
La maggior parte di coloro che arrivano in Europa attraverso le terre selvagge del deserto del Sahara, e sono sopravvissuti al cimitero mediterraneo controllato dell’UE (il cosiddetto Mar Mediterraneo), viene anzitutto abbandonata in centri di detenzione. Aspettando che i loro destini siano finalmente determinati dalle commissioni territoriali, alcuni saranno protetti come rifugiati e ad altri verrà data protezione sussidiaria, mentre il resto sarà etichettato come “migrante economico” per legittimarne la discriminazione e lo sfruttamento illegale, costituendo una forza lavoro precaria che può essere utilizzata, scaricata, riutilizzata e sfruttata a bassissimo costo. Il risultato è una forma di schiavitù contemporanea che collega il lavoro del Sud globale (prevalentemente dall’Africa e dall’Asia) alle economie capitaliste dell’Europa attraverso il sistema di asilo dell’UE.
Sebbene non sia il primo sistema di globalizzazione dei lavoratori migranti di massa, certamente questo movimento internazionale di massa di lavoratori migranti è un effetto diretto della globalizzazione, una “corsa verso il basso” che intrappola i migranti in un circolo vizioso senza fine.
Questi cittadini extracomunitari saranno privati di asilo e cacciati dai campi (58% nel 2017), vivranno in condizioni disumane senza “diritti”. E questa situazione si rivela proficua per l’Italia agricola, e conveniente per l’Europa, e coerente con il commercio globale neoliberale. Non sorprendentemente, al culmine dei flussi mediterranei e della recessione economica mondiale iniziata nel 2008, la produzione agricola italiana quasi raddoppia.

8. Questo sistema economico capitalista per acquisire ricchezza per pochi privilegiati ha condannato il migrante, la sua famiglia e i discendenti a venire, prefigurandone il destino, e poi legittimandolo intellettualmente con lo sviluppo di ideologie anti-migratorie e concetti legali di criminalizzazione del migrante, come il reato di clandestinità.
Attraverso la xenofobia, gli abusi violenti e la mancanza di governo nel sud, con l’aiuto di piccole élites politiche privilegiate e politiche migratorie draconiane, pochi individui sono riusciti a rendere la schiavitù una pratica umanamente accettabile, disumanizzando il migrante.
Nonostante i resoconti di numerose ONG, le inchieste giornalistiche indipendenti, e le opere di tanti studiosi di alto profilo, nonostante la celebrazione dell’articolo 603 del codice penale sull’intermediazione illecita e lo sfruttamento del lavoro, i migranti sono ancora ridotti in schiavitù da un sistema di produzione alimentato dalle ideologie anti-migranti, intanto che circa il 47% della forza lavoro agricola italiana è costituita da immigrati, di cui il 30% di discendenza africana, secondo il recente censimento.
Sebbene in Italia sia inconstituzionale discriminare il lavoratore su basi di razza, sesso, religione o origine nazionale, resta superiore tra i migranti il tasso di disoccupazione, e quelli occupati lo sono perlopiù in lavori rischiosi, malpagati, o legati all’economia sommersa. Sappiamo fin troppo bene che senza un lavoro dignitoso non c’è reddito decente, e senza reddito c’è povertà e disperazione anche per la discendenza.
Tanti migranti sono occupati in nero, lavorano per meno del salario minimo, e di conseguenza vivono al di sotto della soglia di povertà. È evidente che questa situazione non è troppo lontana dalle circostanze della schiavitù transatlantica dei secoli scorsi: gli odierni schiavi lavorano per quasi nulla, vivendo poveri e disperati in condizioni di vita degradanti e in nessuna condizione di melting-pot.

9. Il mio appello alla “brava gente”
“Italiani brava gente”, storicamente si dice, e l’Italia resta famosa per la sua ospitalità. Eravate brava gente nota anche per le sue storie di emigrazione, che oggi si è purtroppo trasformata in una nazione talora inospitale, xenofoba e razzista. Cosa vi è rimasto, brava gente, dell’esperienza di emigrazione in Argentina, negli Stati Uniti, e più di recente in Germania? L’immigrato africano di oggi è il vostro coraggioso nonno e il vostro industrioso genitore di ieri, discriminato senza alcun motivo al di là dell’oceano e nei Paesi nordici europei.
Come la malattia che ha colpito gli alberi di agrumi siciliani nel 2013 (“Citrus Tristeza”), così è il fenomeno del grave sfruttamento del lavoro che espone i lavoratori migranti a condizioni di vita e di lavoro inumane. Il “Virus della tristezza” degli agrumi siciliani inizia con sintomi di crescita lenta, perdita di foglie e infine rami. Colpisce i frutti. La malattia è causata dalla crescita eccessiva di un singolo ramo che finisce per uccidere l’albero. Lo sfruttamento dei lavoratori migranti è come l’albero di agrumi le cui foglie e rami sono i lavoratori migranti. L’eccessiva crescita dell’agromafia come cancro sociale e come realtà implicitamente accettata alla fine ucciderà i diritti di tutti i lavoratori.

Gli autori

Alagie Jinkang

Alagie Jinkang giunge qualche anno fa a Pozzallo in Sicilia su un barcone. Oggi è dottorando all’Università di Palermo.

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One Comment on “Migranti: i nuovi schiavi dell’agricoltura italiana”

  1. La schiavitu’ precede di molto il capitalismo, ma il trattamento di queste persone e’ davvero iniquo e disumano.

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