La morte di Giorgio Napolitano ha suscitato e suscita valutazioni divergenti. Il giusto cordoglio e l’offa che si paga alla consuetudine di non parlar male di chi è appena trapassato non possono esimerci da darne una valutazione che vada oltre i singoli e assai numerosi rimproveri che si possono muovere alla sua lunga presidenza della Repubblica.
Non si può infatti non osservare come nel popolo della sinistra sia stato vivace il disappunto per il modo in cui ha interpretato il suo mandato un esponente di quel partito comunista che per decenni s’è contrapposto al potere democristiano e che ha incarnato i valori della sinistra, sino a non rendere nemmeno concepibile la possibilità di una formazione che si ponesse con altrettanta forza a rappresentare gli interessi dei lavoratori e delle masse popolari. In effetti il partito di Napolitano aveva tradizionalmente rappresentato la sponda politica e parlamentare delle forze sindacali e della classe operaia e – nel periodo in cui i socialisti con Craxi hanno cercato di rivendicare una loro autonomia – si è eretto a difesa di una storia che riteneva tradita dal tralignare della nuova classe dirigente socialista. Molti quindi si aspettavano una presidenza più simpatetica con le esigenze delle grandi masse popolari e che, pur non indulgendo al populismo, levasse la sua voce contro i potenti e contro i poteri che hanno sempre governato – sotterranei o visibili – la società italiana; un presidente che – come in passato aveva fatto Pertini – fosse, per portare un esempio, meno sensibile alle esigenze garantiste degli incriminati, specie se appartenenti al ceto politico, e più vicino a coloro che lottano contro mafia, camorra e poteri criminali di diversa natura e provenienza. Insomma un presidente che non si identificasse con le istituzioni al punto da essere il maggior garante delle “larghe intese”, della politica della continuità, della stabilità di governo a qualunque costo, anche al prezzo di un’austerità dettata dai poteri economico-finanziari europei, da molti ritenuta antipopolare.
Ma chi ha nutrito sentimenti di tal fatta dimostra di aver capito poco non tanto di Napolitano, ma di ciò che è stato storicamente il comunismo; non quello generoso dei militanti e inscritto nelle idealità che lo hanno visto nascere e hanno suscitato tante speranze e adesioni nelle masse popolari, ma quello dell’apparato, dei suoi dirigenti, del partito inteso come organismo governato dal principio del centralismo democratico. Ha sottovalutato il fatto che il comunismo ha pensato, sin dall’inizio e in modo sempre più convinto e deciso, che la trasformazione della società e la creazione di un “uomo nuovo” passasse integralmente e in modo imprescindibile dall’occupazione totale delle istituzioni, dall’identificazione del partito con esse, nella presunzione di interpretare in modo completo tutte le sfumature e le sensibilità presenti nel sociale e di dare loro risposta. Ciò ha fatto sì che il comunismo “reale”, una volta conquistato il potere, non solo ha spento la dialettica democratica, ma non ha lasciato spazio alla società civile, alla libera creatività popolare e ad altre forme di rappresentanza politica, assorbendo nelle proprie istituzioni e nei propri organismi ogni spazio della cosa pubblica.
Questa consolidata inclinazione dei partiti comunisti si è trasferita naturalmente ai suoi dirigenti: una volta pervenuti a posizioni di responsabilità istituzionale, essi si sono totalmente identificati con esse, con le loro logiche interne, difendendone le prerogative. Sono, insomma, diventati “più realisti del re”, pensando di esaurire in sé sia il normale funzionamento dell’organismo statale, sia l’esigenza di una sua trasformazione radicale, che pure faceva parte del loro codice genetico. Tale identificazione ha non solo comportato lo smarrimento del progetto politico iniziale (il “sol dell’avvenire”), ma ha reso anche immodificabili le istituzioni nei loro assetti più profondi: sarebbe stato altrimenti minacciato il potere di chi con esse ormai si immedesimava, trovandosi pienamente a proprio agio nel governare una società immutata nei suoi caratteri economico-sociali di base. I comunisti – diversamente dai socialisti e dai libertari in genere – non hanno mai posto una distanza tra se stessi come partito e se stessi come uomini dello Stato, se non strumentalmente, sino a quando sono rimasti all’opposizione; così non hanno permesso una dialettica interna che ne potesse contestare l’asserita identità.
V’è dunque poco da meravigliarsi: per questo aspetto, Napolitano rappresenta l’ultimo, coerente comunista-stalinista, sopravvissuto in Italia alla scomparsa del suo partito. Dimenticate le idealità comuniste egualitarie (come del resto han fatto gli eredi del partito che fu suo e quelli di un Pd che quasi si vergogna di parlare di eguaglianza e solidarietà), ormai diagnosticata l’impossibilità della rivoluzione o sia pure di effettuare quelle “riforme di struttura” una volta invocate dal Pci, Napolitano, sostenuto da gran parte del ceto dirigente, ha serbato solo l’identificazione di se stesso con gli apparati istituzionali, dei quali s’è eretto a garante “senza se e senza ma”, con chiunque e comunque, mummificandosi ancora in vita nei palazzi del potere. E così Napolitano del comunismo ha perpetuato – in un contesto democratico e seguendone formalmente le regole – la caratteristica peggiore, quella che lo ha reso un sistema inviso ai popoli che l’hanno subito e che ne ha infine decretato la scomparsa.
personalmente penso che napolitano non sia mai stato comunista, e nemmeno stalinista.
semmai ha utilizzato il pci, nei suoi anni egemonici, per arrivare dove è arrivato.
un opportunista trasformista, più che migliorista.
un infiltrato del capitalismo, al servizio del capitalismo.
con la turco-napolitano ci sono stati i primi provvedimenti contro gli immigrati.
con il crollo del governo berlusconi, nel 2011, e il governo monti, ha realizzato la fine della sinistra.
stalin gli avversari politici li faceva scomparire, napolitano ci andava a nozze.
Credo che Napolitano sia stato il primo di una serie di politici con una caratteristica ben determinata: quella di chiedere consenso su una “rivoluzione ragionevole” e far passare il proprio potere reale rigorosamente per la tappa fondamentale di un viaggetto a Washington alla vigilia d’ogni elezione. I Di Maio e molti altri prima o dopo han copiato da costui. Qualcuno s’è accontentato di vedersi e sentirsi con l’ambasciatore a Roma, senza “vacanze di primavera” negli USA. Qualche altro, spocchioso, ha delegato il contatto a qualche piccolo Tajani. Col risultato che noi sbavavamo pur di avere un Napolitano o un Mattarella “di garanzia” anzichè un Caimano al Colle… E fuori Italia facevano il tifo per “noi”: giammai che lo Stivale fosse indossato da un amico di Putin (e a suo tempo di Gheddafi)! Nel frattempo, tempus fugit e si fanno i funerali dello Stato: https://www.ilfattoquotidiano.it/2023/09/26/funerali-dello-stato/7304344/
Mah… Mi sono bastate le sue sciovinistiche fregnacce su esodo e foibe. A parte che non l’ho mai sopportato nel passato.
Napolitano va anche giudicato per come ha interpretato e svolto la carica di Capo dello Stato, nella prerogativa fondamentale di garante della Costituzione. Al pari di tanti suoi predecessori, ha dato un contributo significativo alla distruzione della Carta, sia quando si è trattato di controllare sul funzionamento dei poteri legislativo ed esecutivo, che in merito alla sua attuazione programmatica.
Concordo, Francesco, con il tuo articolo. Una delle sue opzioni peggiori è stato il divieto ai giudici antimafia di utilizzare le sue telefonate con Mancino (se ricordo bene il cognome del ministro intercettato): se uno non ha nulla da nascondere, non fa di tutto per secretare le sue conversazioni ‘istituzionali’.