Sabato 5 febbraio è iniziato l’“Insorgiamo Tour” degli operai della ormai ex GKN di Firenze. Toccherà parte dei territori attraversati dalle varie e drammatiche crisi industriali. Storie che purtroppo si assomigliano tutte e evidenziano un meccanismo perverso che distrugge la vita di migliaia di persone e delle loro famiglie. Lo scopo di questa iniziativa non è solo portare in giro la nota e importante esperienza di lotta dei lavoratori fiorentini, ma anche confrontarsi sulle tematiche legate alle scelte dei colossi industriali, sulle pratiche di lotta in corso e su come sia possibile cercare di elaborare un’alternativa.
La prima tappa è stata nelle Marche, a Jesi: una bella e interessante assemblea, organizzata dal Cento Sociale TNT e dal presidio dei lavoratori, davanti alla Caterpillar, dove da settimane si lotta dopo che la proprietà ha deciso di licenziare i 260 operai. I temi toccati durante il confronto hanno messo in luce questioni cruciali rispetto alla fase storica che stiamo vivendo, nonché esplicitato delle difficoltà di carattere politico, anche dal punto di vista teorico.
Come è noto il processo di globalizzazione neoliberista ha gradualmente trasformato il sistema industriale un po’ ovunque, con conseguenze pesantissime nel cuore del mondo occidentale. Il film, purtroppo tutto vero, delle varie crisi, ha sempre proposto un copione simile: arrivo della multinazionale di turno che sostituisce la vecchia proprietà, sfrutta il contesto e magari finanziamenti pubblici e poi, dopo aver fatto i suoi affari, se ne va in località più vantaggiose per fare profitto lasciando nella disperazione i lavoratori. Un tempo di fronte a licenziamenti e chiusure era semplice organizzare la risposta. Bastava bloccare la produzione, magari occupare la fabbrica e ciò poteva essere sufficiente per intralciare e anche impedire i progetti di ristrutturazione. Ma con i nuovi marchi globali, con il capitalismo del terzo millennio, questa risposta si rivela spesso frustrante e inutile perché le multinazionali, grazie al servilismo del potere politico, se ne vanno tranquillamente altrove, magari portando via di notte i macchinari, come è accaduto nelle Marche alcuni anni fa.
E qui si pone il problema di sciogliere un nodo teorico piuttosto cruciale. Ancora c’è chi rivolge le sue speranze al soggetto pubblico, cioè lo Stato, evocando improbabili “nazionalizzazioni”. La forma mentis ancora presente è evidentemente quella che ci riporta indietro di decenni, ai famosi “gloriosi trent’anni”, nella fase keynesiana dello sviluppo capitalistico, quando in nome del cosiddetto “compromesso socialdemocratico” e in sintonia con le esigenze espansive del capitale, si dispiegò una fase che, nel produrre un impetuoso sviluppo industriale accompagnato dalla relativa crescita occupazionale, provocò sicuramente, con un ruolo pubblico rilevante, un effetto positivo (e grandi lotte operaie), peraltro abbinato a una devastazione ambientale di cui oggi stiamo drammaticamente pagando le pesantissime conseguenze. Ma fu una parentesi, perché da sempre lo Stato non è stato la soluzione, ma il problema. Come sottolineava, nella sua imponente opera dedicata al “Debito”, l’antropologo e attivista sociale David Graeber, scomparso improvvisamente e prematuramente un anno e mezzo fa, «nella visione del senso comune, lo Stato e il mercato torreggiano sopra ogni altra cosa come principi diametralmente opposti. [Ma] la realtà storica rivela, nondimeno, che sono nati assieme e sono stati sempre intrecciati tra loro». Ed è sempre opportuno ricordare la Bad Godesberg del capitalismo, sancita dal convegno di Parigi dedicato al liberale Walter Lippmann che, mettendo in minoranza le tesi oltranziste di Von Hayek e accoliti, sancì il ruolo che doveva ricoprire lo Stato come garante delle dinamiche di mercato, secondo i dettami della corrente ordoliberale, rappresentata dalla Scuola di Friburgo. Pensare a un intervento dello Stato dunque è, oltre che inattuale per la fase storica, illusorio perché elude questo aspetto cruciale. Stato e mercato sono due facce della stessa medaglia.
Come uscirne? Per quanto riguarda la realtà fiorentina è subentrata una nuova proprietà, quindi in ogni caso è stata scongiurata le perdita sicura dei posti di lavoro, anche se ‒ come affermano gli operai ‒ è tutto da ancora decifrare. Ma comunque la lotta ha prodotto un risultato. In generale, a partire dalla crisi argentina di inizio millennio si è sviluppato il fenomeno della fabbriche autogestite dai lavoratori, le cosiddette “Fabbriche aperte”, come titola uno dei saggi usciti in questi anni sull’argomento. Anche in Italia ci sono stati casi di realtà produttive, quasi sempre di piccola entità, al contrario dell’Argentina, dove sono nate cooperative e esperienze di proprietà operaia: il caso più noto è la Rimaflow. Il grosso limite è dato dal fatto che il tutto avviene in un contesto di mercato capitalista, con le sue regole. Inoltre spesso, per quanto sia importante lavorare senza padrone, si rischia di cadere in una inevitabile logica di “autosfruttamento”, perché sempre di lavoro mercificato si tratta.
Insomma è tutto molto complicato, senza contare un’altra questione centrale evidenziata anche a Jesi, legata alla riconversione ecologica, anzi alla cosiddetta “transizione ecologica”, dove le ambiguità e gli “equivoci” sono ampiamente presenti. Basti pensare alle uscite del ministro Cingolani e alle recenti direttive UE su gas e nucleare. Altro problema, tutt’altro che nuovo, è cosa produrre. Nell’assemblea di sabato, prendendo la realtà della fabbrica di Firenze, si è accennato alle auto elettriche. Ma come rilevato da autorevoli rappresentanti del mondo ecologista, sostituire centinaia di milioni di veicoli a benzina con l’elettrico, comporta ben poco, se non si cambia il “modello” produttivo, sociale ed economico. Ed entrano così in gioco altri aspetti altrettanto rilevanti che per ragioni di spazio non posso affrontare qui. Come sono altrettanto prioritarie le questioni della riduzione dell’orario di lavoro e del diritto al reddito.
Di sicuro la scelta degli operai fiorentini di portare in tanti luoghi la loro importante esperienza, oltre a confermare il ruolo di punto di riferimento autorevole e avanzato da loro rappresentato, fornisce a tutti noi un’occasione assai preziosa non solo di fare rete solidale e di favorire relazioni politiche e sociali proficue e atte a fare uscire dall’isolamento le relative mobilitazioni, ma anche di riflettere su argomenti così decisivi per il nostro futuro.