“Patria o morte”

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Io mi considero di estrema sinistra, e tali sono i miei migliori amici; negli anni intorno al ’68 eravamo “compagni”, ma ora che le circostanze politiche e la nostra età ci impediscono una militanza paragonabile a quella di allora siamo rimasti amici, il che non è poco. Con questi amici, e ormai quasi solo con loro, intrattengo a volte discussioni politiche. Senza censure e senza timori di essere inopportuni, come appunto usa fra amici. E a dispetto dello spazio politico comune cui riteniamo di appartenere abbiamo a volte serie divergenze. (Apro una parentesi: credo che un buon metro per valutare la profondità di un’amicizia siano appunto la sincerità e la mancanza di autocensura con cui si discute. Se l’amicizia è reale non si ha paura di offendere).

Un punto di divergenza riguarda l’importanza della “Patria” nella lotta politica. Alcuni dei miei amici ritengono che si debba abbandonare del tutto qualsiasi riferimento ad essa: dobbiamo essere internazionalisti, non ci sono motivi se non reazionari per privilegiare gli interessi degli italiani rispetto a quelli, per esempio, degli immigrati afghani; ritenere che esistano interessi della “Patria” come diversi da quelli, in contrasto fra loro, dei diversi strati sociali che la compongono è un’operazione culturale reazionaria, volta a nascondere i conflitti di interesse che si agitano all’interno di essa; e così via. Infine, il termine stesso “Patria” è fuorviante, così come lo è per esempio “razza”, a causa di ciò che evoca. Su quest’ultimo punto sono d’accordo, e infatti metto il termine fra virgolette per indicare che sarei lieto di usarne un altro; che però non esiste. Prego dunque il lettore di ricordare che in quanto segue questo termine va inteso a significare «Stato di cui si è cittadini, o per nascita o per naturalizzazione, e la cui Costituzione e le cui leggi sanciscono i nostri diritti e i nostri doveri», senza ulteriori implicazioni. Come si sarà intuito, non sono d’accordo con queste posizioni (a parte quanto appena più sopra). E la loro confutazione è il tema di questo intervento. Ritengo che due motivi facciano sì che la “Patria” sia importante e non debba essere trascurata dalla sinistra.

Il primo motivo è che gli italiani si ritengono italiani, i francesi francesi e così via. Chi ne dubiti provi a rispondere a questa domanda: perché agli europei di calcio teneva per l’Italia (o, che è lo stesso, teneva contro l’Italia, il che vuol dire un rifiuto attivo di un’appartenenza, che può avere molti motivi ma si basa comunque su una asimmetria fra l’Italia e altri paesi. Chi non è appassionato di calcio può porsi la domanda riferendosi agli atleti italiani alle Olimpiadi). Si troverà subito in difficoltà, se vorrà cercare una spiegazione che prescinda dal “sentirsi italiano”. Naturalmente si potrà pensare che questo attaccamento è un errore indotto dai media, dalla subcultura finalizzata al perpetuarsi di privilegi di classe, e così via. Ma chi la pensa così trascura ciò che ci dicono storici, biologi, antropologi e psicologi riguardo alla pervasività dell’importanza dell’appartenenza a un gruppo. In altri termini, tutto sta ad indicare che nel “ritenersi italiani” ci sia qualcosa di profondo. Un giorno, forse e auspicabilmente, il gruppo di riferimento di ciascuno sarà il mondo. Ma per ora non è così. Rifiutarsi di ammettere ciò è un po’ come il rifiuto di fare i conti con le credenze religiose di massa perché si pensa che la religione sia solo superstizione.

Ritengo quanto sopra molto importante, ma purtroppo non pratico le discipline che ho appena citato, e quindi non sono in grado di procedere oltre. Pratico invece l’economia (fino al 2017, anno in cui sono andato in pensione, sono stato professore ordinario di Politica Economica), e ritengo che ci sia una ragione economica molto importante che impone a chi si professi di sinistra di occuparsi della propria “Patria” (l’Italia, nel nostro caso); in effetti talmente importante da far sì che non farlo sia comunque sbagliato, indipendentemente dall’altro motivo. Si tratta di questo. Le decisioni politiche vengono prese a diversi livelli – da quello di quartiere a salire fino a quello mondiale. Le decisioni politiche più importanti, quelle che hanno il massimo effetto sulla vita delle persone, e che hanno il maggiore effetto sul futuro della vita economica e quindi sociale dei cittadini, vengono prese a livello nazionale. La difesa e l’allargamento dei diritti civili, la tutela dei lavoratori, il mantenimento (e per molti il raggiungimento) di un livello di vita dignitoso, la tutela dell’ambiente, sono tutti temi in primissimo (e spesso quasi esclusivo) luogo regolati dalle norme nazionali. Inoltre, queste caratteristiche fondamentali della democrazia sono sancite dalla nostra Costituzione, ma non lo sono a livello inferiore (le regioni) o superiore (l’Europa). In effetti la nostra Costituzione costituisce il principale baluardo contro la barbara evoluzione dell’Europa cui stiamo assistendo in questi anni. (Gli apologeti di questa evoluzione affermano, oggi come uno e due secoli fa, che nel lungo periodo questo creerà una società più giusta e più prospera per tutti. Né la storia né la teoria ci dicono che ciò sia vero; ma anche ammesso che lo sia, il lungo periodo sarebbe molto probabilmente troppo lungo per essere accettabile per chi deve vivere in esso). Ho scritto che la nostra Costituzione è un baluardo a difesa di condizioni di vita accettabili per i nostri cittadini. Avrei dovuto dire dovrebbe essere un baluardo siffatto. Non a caso essa viene sempre più accantonata e violata, in nome delle esigenze di un’entità superiore, l’Europa; e nulla garantisce che queste esigenze siano quelle dei suoi cittadini, in particolare di quelle dei cittadini delle sue aree periferiche. Ma il fatto che la nostra Costituzione non sia rispettata non vuol dire che sia del tutto inefficace; e soprattutto ciò implica un terreno di lotta molto importante, quello appunto della implementazione dei diritti costituzionali, che per sua natura si colloca a livello nazionale.

Riassumendo fin qui. Chi si professa di sinistra deve volere che vengano fatte cose di sinistra. Il soggetto che più di ogni altro può fare queste cose è (ancora) lo Stato nazionale. A quel livello si deve operare. Inoltre, l’ente sovranazionale più importante per noi, il governo europeo, non è vincolato da alcun testo con valore legale al rispetto di diritti fondamentali al di là di quelli di libertà (che peraltro, come la storia ci insegna, sono facilmente conculcabili nel caso lo si ritenga opportuno). Contro il suo arbitrio bisogna rivendicare la priorità della nostra Costituzione.

Ora, esiste un’evidente contraddizione fra, da una parte, il sostegno a proposte di provvedimenti nazionali di implementazione dei diritti sanciti dalla nostra Costituzione e, dall’altra, l’abbandono dell’impegno politico a livello nazionale. Essere internazionalisti non vuol dire – e non ha mai voluto dire ‒ trascurare la politica nazionale. Salvini e Meloni sono nazionalisti, “Italy first”. Ma mi sembra di un’ingenuità enorme decidere che siccome loro si riempiono la bocca della parola “Italia” allora è giusto ignorare la dimensione nazionale. Omnia munda mundis: il fatto che la Lega affermi, strumentalmente, di volere difendere gli italiani non deve farci dimenticare che quella difesa è necessaria.

Quanto sopra può essere riassunto in una frase: le decisioni politiche più importanti sono (forse: sono ancora) quelle che vengono prese a livello di governo di uno Stato. Quello deve essere il terreno del massimo impegno per la sinistra. Molti di noi ex-compagni, e molti nuovi giovani compagni, si impegnano nella politica a livello locale, oppure sui grandi temi etici, perché oggi solo a quei livelli è possibile sperare di ottenere dei risultati; ponendosi in un caso a valle e nell’altro a monte del livello della “Patria.” Apprezzo questa partecipazione, ma chi la pratica dovrebbe avere chiaro che il rifiuto della dimensione nazionale più che una scelta è l’accettazione di una sconfitta.

È comprensibile e scusabile che chi ancora milita a sinistra annetta poca importanza ai terreni su cui non può militare. È invece comprensibile (forse; ma è un discorso lungo) ma certo non scusabile che lo stesso avvenga per quel poco che rimane di forze politiche che si dichiarano di sinistra. Mi riferisco a Sinistra Italiana, MDP e Liberi e Uguali. Oggi i problemi principali del nostro paese sono la necessità di un sistema fiscale redistributivo, la realizzazione dei diritti positivi sanciti dalla Costituzione, la creazione di posti di lavoro (i dati ci dicono che è bene non farsi illusioni sul PNRR, ma anche questo è un altro discorso) e l’adozione di una politica più assertiva nei confronti dell’Europa, le cui regole impediscono una politica industriale (a causa del divieto di aiuti di Stato), una politica monetaria (a causa dell’Euro) e una politica fiscale (a causa del Patto di Stabilità): in altri termini, impediscono di governare in base a scelte di politica economica (adesso queste regole sono sospese a causa del Covid, ma anche su ciò è bene non farsi illusioni). Sono ovviamente problemi che possono e devono essere affrontati a livello nazionale, e dalla cui soluzione (o mancata soluzione) dipende la vita quotidiana di ciascuno di noi molto più che da qualsiasi intervento locale. Cosa viene detto su di essi nei programmi delle tre forze di sinistra (chiamiamole così) che ho citato? Sul sito di Sinistra Italiana non c’è alcun documento programmatico; ciò che più vi si avvicina è una proposta di legge di iniziativa popolare, piuttosto timida, per un’imposta sui grandi patrimoni da usare a sostegno del welfare. Sul sito di MDP nuovamente non c’è un documento programmatico, e su quello di LeU c’è – finalmente ‒ un manifesto, ma assolutamente generico. Vi compaiono slogan del tutto condivisibili («La sinistra che vogliamo costruire deve dare forma, non nei sogni futuri, ma nelle lotte dell’oggi, al mondo della libertà e dell’uguaglianza»); ma di politiche economiche non si parla. Il compito di un partito di sinistra dovrebbe essere quello di indicare obbiettivi ambiziosi e praticabili, frutto di un’analisi approfondita della realtà e delle sue tendenze: così come facevano già i Comunisti nel 1848 e i Cartisti dieci anni prima. l’impressione che si ha guardando quei siti e che tutti e tre abbiano rinunciato a questo compito.

Il titolo di questo intervento può sembrare retorico e nazionalista, quindi tipicamente di destra: ma era il motto di Ernesto Guevara. Ed è un motto giusto anche qui e ora: se lasciamo che la legislazione sul lavoro e sul welfare venga demandata all’Europa (a questa Europa), e che i diritti garantiti dalla nostra Costituzione diventino indifendibili in una giurisdizione, quella dell’Europa (di questa Europa) che non li contempla, allora possiamo aspettarci che il processo di degrado che sta affliggendo il nostro paese si aggraverà ulteriormente. E il degrado sociale si manifesterà anche nei termini di una maggiore mortalità. La realtà è dialettica. Il nobile internazionalismo che può portarci a privilegiare la battaglia degli immigrati per la loro accettazione come cittadini italiani non deve farci dimenticare che questa integrazione sarà poca cosa se non sono realizzati i diritti fondamentali, per esempio quello sancito dall’art. 36: «il lavoratore ha diritto a una retribuzione […] in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa»; e che solo i cittadini italiani possono ottenere che lo siano.

Le recenti elezioni amministrative testimoniano di una separazione fra popolo e rappresentanza politica sempre più ampia e più preoccupante. Parliamoci chiaro: non la si può superare occupandosi solo dei problemi del quartiere e di diritti civili, anche se sono certamente importanti. Bisogna occuparsi, come diceva un grande politico del secolo scorso, dei problemi “del sale e del riso”, e affrontarli a quel livello dove possono essere risolti. Forse, dove ancora possono essere risolti, anche se è molto tardi.

Gli autori

Guido Ortona

Guido Ortona, economista, è stato professore di Politica economica presso l’Università del Piemonte orientale. Le sue ricerche hanno riguardato soprattutto le economie di tipo sovietico, l’economia del lavoro e l’economia comportamentale. Tra i suoi libri, da ultimo, I buoni del tesoro contro i cattivi del tesoro (Robin, 2016)

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5 Comments on ““Patria o morte””

  1. Molte considerazioni, prime fra tutte quelle più specifiche e meno generiche, sono alquanto condivisibili.
    Condivido in primis l’idea che a sinistra si sia apparentemente abbandonata, da sconfitti, la battaglia sulla Nazione.
    Questo non toglie che anche il suo revival sia di per sè un’ammissione di sconfitta. Pare che l’inconscio della sinistra guardi al suo passato internazionalista (quello dell’Internazionale) semplicemente come un sentiero sbagliato da non ripercorrere. Cadendo in una delle tante trappole della “Fine della storia” (quella culminata nel 1989 dopo alcuni anni di demolizione attiva).
    In realtà, la globalizzazione ha demolito quel che ancora qualche decennio fa si poteva sognare: la contrapposizione tra un solo gradino (la Nazione, appunto) della scala del potere. Troppi aspetti sono diventati finzione, tra quelli che lo facevano vedere come piano direzionale del Palazzo.
    Ho l’impressione che, indugiando su questa secolare diatriba, si finisca col dividersi sul nulla. Se ancora non si tratta proprio di un nulla, è per aspetti che ormai non possiamo più trattare unitariamente. Possiamo solo citarli come specifici esempi a favore o a sfavore di una parte nella diatriba.
    Del resto, gli stessi esempi potrebbero benissimo essere citati a conferma della difesa della Nazione, come del suo superamento. Leggetevi bene questo articolo in ogni passaggio logico, e ditemi se non se ne potrebbero ribaltare le finalità.
    Potrebbe essere che sia la formazione di ciascuno, a fare da bias cognitivo. Uno che si è sempre occupato di politica economica, ovvio che sia sconfortato dalla sua crescente impossibilità da parte dello stato nazionale nel cammino europeo. Uno che si è sempre occupato di diritto, ovvio che ne colga l’involuzione della legislazione.
    Ci potrebbero essere milioni di altri bias. Il punto è sortirne insieme, come diceva quel tale.
    E ne aggiungerei un altro, di punto. Che si guardi sempre all’umanità con cui si ha a che fare. Perchè, quando per esempio due nazioni scontrano i loro interessi, cosa succede a chi sta in mezzo? Vale di più l’interesse della nazione, perchè dietro di essa (a valle di una scala non si sa quanto lunga) ci sono più portatori di diritti?
    Più che nazione sì o nazione no, credo invece che la battaglia di oggi, da noi, sia quello della Costituzione. Ma senza mai dimenticare 1) le sue fumosità originarie (laddove demanda alla Legge la traduzione in pratica di troppi aspetti fondamentali), 2) cosa succede se, invece di fregarsene e calpestarla come al solito, i suoi avversari la stravolgono?

  2. Le osservazioni contenute nel testo di Guido Ortona sono sicuramente attuali e importanti, ma rischiano di restare alla superficie dei problemi che vogliono affrontare.
    Parto dal fondo: la mancanza di programmi di politica economica delle piccole organizzazioni a sinistra del PD piu’ che un sintomo di insipienza o di sottovalutazione dei temi di livello nazionale, mi sembra il segnale evidente che queste organizzazioni non hanno una prospettiva autonoma. Denunciano a ragione i limiti, le ingiustizie e gli orrori di questo sistema capitalistico e della sua ideologia liberista nel mondo, in Europa e in Italia; ma anche quando propongono qualcosa lo fanno senza avere un’idea di società e di ideologia alternativa. Esse si limitano a svolgere un ruolo di coscienza critica del PD, che, come propone qualcuno, potrebbero fare anche all’interno di quello stesso partito.
    Provo a fare un esempio, per chiarire. Consideriamo il reddito di cittadinanza: esso è, nella sua forma attuale, una misura di contrasto alla povertà e non serve a modificare concretamente la situazione del mercato del lavoro italiano, se non in minima parte.
    Tuttavia esso ha prodotto degli effetti imprevisti non sulle condizioni oggettive del mercato del lavoro, ma sull’atteggiamento soggettivo di molti giovani verso il lavoro.
    Molte ragazze e molti ragazzi si sono domandati, infatti, se vale la pena fare lavori di merda per salari di merda e se non sarebbe meglio avere un reddito di base di sopravvivenza (certamente molto piu’ diffuso dell’attuale reddito di cittadinanza) per poter fare lavori di soddisfazione fuori dal mercato capitalistico oppure per continuare a studiare.
    Qualcuno ha scritto che il rock e il pop inglese degli anni ’60 e ’70 non sarebbe mai nato, se non ci fossero state le provvidenze del welfare state britannico, prima dell’avvento di Margaret Thatcher.
    Analogamente il lavoro a distanza durante la pandemia ha modificato anch’esso l’atteggiamento di tanti lavoratori stabilmente inseriti nel mercato del lavoro, non solo italiano.
    Molti, infatti, hanno incominciato a mettere in discussione l’equilibrio consolidato tra il tempo di lavoro e quello di vita: al punto che in alcuni paesi e in alcune aziende si è iniziato a sperimentare orari settimanali diversi.
    Non casualmente questi temi vengono duramente respinti dagli epigoni piu’ sguaiati del sistema, come Renzi che dichiara che vuole vedere la gente soffrire per costruirsi un lavoro degno o come Brunetta che pretende che gli impiegati pubblici tornino tutti al lavoro in presenza per garantire un numero sufficiente di clienti ai ristoratori colpiti dalle conseguenze della pandemia.
    Ma un reddito di base e un diverso rapporto tra tempo di vita e tempo di lavoro sono ingredienti di un’organizzazione sociale ed economica diversa da quella attuale e come tali vanno letti e proposti al mondo dei lavoratori: solo con questa bussola è possibile valutare se i risultati concreti che si possono strappare allo stato e al padronato vanno nella direzione voluta.
    Naturalmente questa posizione individua uno spazio nazionale, ma si rivolge anche all’esterno di quest’ambito per stimolare analoghi percorsi o per apprendere nuove soluzioni dall’esterno: l’internazionalismo nostro e ancor piu’ quello dei nostri padri, quando non era pura retorica o, peggio ancora, semplice declinazione della posizione dello stato guida, si basava proprio sull’incontro e il confronto di diverse esperienze nazionali rivolte, pero’, verso un obiettivo comune.
    E’ ancora importante l’ambito nazionale oppure dobbiamo muoverci all’interno di un orizzonte piu’ ampio, almeno europeo? Certo se guardiamo all’Europa cosi’ come è concepita e organizzata sulla base dei trattati attuali, non possiamo che registrarne la lontananza da obiettivi di alternativa al capitalismo e al liberismo: ma c’è da stupirsi?
    Piuttosto sono altri gli aspetti da considerare: ad esempio i giornali lamentano spesso la fuga dei cosiddetti cervelli, ma dimenticano di dirci che almeno dall’inizio del secolo milioni di giovani dall’Italia, dalla Grecia, dalla Spagna, dal Portogallo e da tutti i paesi dell’est sono emigrati verso l’Europa del nord e verso le grandi metropoli (Londra, Berlino, Parigi).
    Essi costituiscono le prime generazioni di europei effettivi e sono molto diversi dai migranti dei due secoli precedenti: piu’ che per bisogno materiale e per ricerca di un nuovo mondo, essi migrano per rompere con società statiche e chiuse nelle quali non si riconoscono.

    Questa nuova realtà sociale a breve ci imporrà di riconsiderare le nostre concezioni sulle nazioni e sull’Europa, non come UE, ma come terreno prioritario di mobilitazione sociale e di impegno politico e culturale.
    Considerazioni nuove si pongono anche per gli altri migranti che provengono dall’Africa e dall’Asia: in grossa parte essi confluiscono verso il nord Europa, ma alcuni si insediano anche in Italia.
    Nel nostro paese ci sono migranti che si stabilizzano e altri che restano stagionali perché legati all’agricoltura: molti dei primi, invece, trovano lavoro nella logistica.
    Per entrambi i gruppi è iniziato un percorso ancora difficile di sindacalizzazione nel quale si sta distinguendo il sindacalismo di base piuttosto che quello confederale.
    Anche questa presenza sta cambiando la struttura del mercato del lavoro sia in senso negativo, lambendo la condizione di lavoro servile, sia in positivo attraverso un nuovo protagonismo sociale che in un futuro non troppo lontano potrà permettere un confronto unitario nel mondo del lavoro salariato.
    Ma anche in questo caso nazionale e internazionale, almeno nel senso europeo (ma non solo), si stanno mescolando.
    Forse, dunque, piuttosto che contrapporre due approcci teorici, occorre guardare ai processi sociali concreti e ai loro sviluppi ravvicinati.

    1. Rispondo, molto in breve, sia a Barbero che a Bonan. Le loro osservazioni sono giuste e interessanti, però non mettono in discussione il mio punto fondamentale: i partiti di sinistra stanno venendo meno al loro dovere di indicare un programma chiaro, perseguibile e di sinistra. Come invece è stata per decenni la pratica dei partiti e dei movimenti di sinistra (anche se non del PCI). Sarebbe molto interessante discutere del motivo di ciò, e riuscire a capire quale è.

      1. Caro Guido, mi sembra che il focus del tuo intervento fosse il tema “nazione o internazionalismo?” e che a questo aspetto centrale si riferisse, infatti,il titolo guevarista.
        Mi pare anche che sia il commento di Antonino Bonan , sia il mio mettessero in evidenza la difficoltà di interpretare la realtà politica, ma anche quella dei concreti processi sociali attuali alla luce di quella vecchia contrapposizione teorica.
        Ora tu ci dici che il vero nodo è, invece,la mancata formulazione da parte della sinistra (quella a sinistra del PD?) di un programma di politica economica per il nostro paese.
        Nel mio commento sono partito proprio da questo punto, sostenendo che le forze a sinistra del PD si collocano solo come coscienza critica di quel partito e che non hanno alcuna idea a proposito di una società diversa da quella attuale e che questa è la ragione di fondo per cui essi non sentono l’esigenza di un programma che andrebbe, pero’, costruito sui reali processi sociali e non solo su ipotesi teoriche.
        Questo problema non si pone per il PD che da tempo ha accettato tutti i presupposti e i vincoli della società capitalistica attuale, pur criticandone alcuni eccessi.
        Forse mi sono spiegato poco e male, forse non ho capito bene le tue argomentazioni: anzi ne sono quasi sicuro. Ma mi viene anche il dubbio che tutti noi siamo affetti da solipsismo: ognuno pensa in proprio e scrive per sé, non per aprire e sviluppare un confronto e un dibattito di cui ci sarebbe proprio un gran bisogno.

  3. Caro Riccardo,
    Mi pare che siamo d’accordo su tutto, ma c’è un punto, importante, su cui stiamo equivocando. Tu scrivi che “un programma andrebbe, pero’, costruito sui reali processi sociali e non solo su ipotesi teoriche.” Lo scrivi come se io non fossi d’accordo. Invece non solo lo sono, ma questo è il mio argomento principale. I “reali processi sociali”, quelli da cui discendono i problemi “del sale e del riso”, come la distruzione del welfare e la disoccupazione di massa, devono essere affrontati a livello nazionale, e questo richiede delle politiche adeguate, o meglio prima ancora delle proposte adeguate, su cui cercare di organizzare le lotte; proposte che per loro natura, se valide, non sono “ipotesi teoriche”.

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