Perché non mi associo all’entusiasmo sulla didattica a distanza

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Collegi docenti, consigli di classe, opinionisti, colleghi esimi tutti entusiasti del nuovo verbo magico, il mantra che sta pervadendo la scuola italiana in questi  tempi di coronavirus. È un peana immenso, una gran celebrazione di questi nuovi strumenti telematici.

Faccio l’insegnante da circa trent’anni. Soprattutto, lo faccio alle scuole medie, ovvero le scuole di tutti, quelle dell’obbligo, ossia la vera “trincea” la scuola che prende in carico i figlie e le figlie di tutti. Non mi associo al generale entusiasmo per queste nuove modalità educative. Soprattutto non mi persuadono alla scuola dell’obbligo e per i minori. Si enfatizza la scuola come “comunità educante”, e lo è, lo deve essere. Un insegnante dovrebbe essere una figura di riferimento sociale importante nella sua comunità. Certo, la precarizzazione, i tagli lineari perseguiti dai governi in questi ultimi dieci anni, così come  nella Sanità, non hanno certo contribuito a costruire questa, adesso tanto invocata, “comunità educante” per non tacere del vero e proprio fango a palate gettato da capi del governo come Berlusconi contro gli insegnanti, dell’opera di demolizione capillare della figura del professore, ripresa ed enfatizzata dai social. Gli insegnanti sbattuti in prima pagina in ogni occasione possibile come mostri. Il risultato è stato il venir fuori di una guerra tra poveri sfociata in attacchi talvolta anche fisici, contro di essi. Tutto questo fango sollevato per giustificare i tagli, tagli di insegnanti, tagli pesantissimi al bilancio, dieci miliardi di euro. Tagli e contemporaneamente, sussidi e riconoscimenti sempre più tangibili alla scuola privata in barba al sacrosanto principio costituzionale dell’insegnamento privato garantito ma “non a carico dello Stato”. Adesso su piattaforme private improvvisate, italiane o americane, si è spostata la didattica. Gli studi più seri indicano il gap tra diverse Italie: da regioni dove la didattica a distanza raggiunge tutti o quasi (e quel “quasi” non è trascurabile) a regioni dove neppure il segnale arriva dappertutto. Noi  non siamo insegnanti lavoranti in proprio, facciamo parte di un sistema educativo nazionale. Un sistema educativo nazionale che ha i propri pilastri nei valori unificanti e tra questi, soprattutto, c’è il fare lezione in aule più o meno bene illuminate e spaziose, in scuole più o meno attrezzate ma scuole dove la vigilanza è garantita dalla presenza fisica degli insegnanti che non solo insegnano ma osservano, annusano l’aria, capiscono i propri ragazzi e hanno il dovere di segnalare le anomalie o quanto possa turbare la vita non solo scolastica degli alunni. Con la didattica a distanza tutto ciò viene irrimediabilmente meno. 

Questa pandemia con i suoi lutti e le sue sofferenze, ci ha colto tutti di sorpresa anche nel mondo della scuola. Giustamente sospese le attività didattiche nelle aule, per limitare il contagio, si lancia questo mai tentato, collaudato prima, esperimento di massa di didattica a distanza. Con poca formazione, senza una necessaria ed esaustiva conoscenza di tutte le conseguenze, positive e negative, senza nessuna precauzione, senza riflessioni serie sull’impatto che questo ha sulla salute psicofisica degli alunni e degli insegnanti, si procede.

Eppure, sono infinite le obiezioni, e pesantissime, che si possono e si devono muovere a questa fattispecie di didattica, in special modo se rivolta a minori. Già vedevamo i nostri alunni in preda agli smartphone, i cellulari o telefonini, non è necessario esibire gli infiniti studi sulla deprivazione sensoriale che questi comportano usati in maniera compulsiva. Dai videogiochi alle chat, dalle piattaforme social come Instagram o Tik Tok, lamentiamo che l’attenzione dei nostri ragazzi alle lezioni è sempre ridotta, orientare la propria vista su uno schermo, perdere progressivamente la visione a trecentosessanta gradi della realtà, spossessa e depriva, la messe di lavori che attestano l’insorgere di depressione e ansia, l’incapacità di articolare un linguaggio, il rinchiudersi in se stessi e quindi, da parte della scuola il dovere e la necessità di “aprire gli occhi e il cuore” dei nostri ragazzi verso il mondo reale, non è messo in discussione da una didattica a distanza praticata acriticamente?

Questa metodologia è solo un surrogato di scuola. Nessuna “comunità educante” potrà mai prescindere dalla viva e vigile dell’insegnante. L’insegnante più sprovveduto, quello meno preparato, saprà pur capire perché un bambino appare demotivato, perché arriva in classe con gli occhi gonfi o indossa sempre gli stessi abiti e magari non proprio lindi. Un senso del fare scuola sta in questo, sta nel proporre non solamente una “didattica” ma nel porgere occasione a tutti, ma proprio a tutti, per esempio, una visita a un museo, a un  luogo d’arte o anche una gita in una riserva naturale. Quante famiglie mai e poi mai, per mancanza di mezzi o per disinteresse totale, non si danno o non possono neppure permettersi simili, basilari cose? La scuola è il presidio della cultura della nazione. La scuola è la sede naturale dove crescere generazioni preparate, consapevoli, coscienti del proprio dovere di aumentare tutte le competenze personali, non solo quelle di tipo tecnico. Sapere apprezzare un quadro, avere sguardi per un paesaggio, riconoscere la poesia e la delicatezza di un linguaggio più ricco dalla sconcezza di tanto latrare da social: questa una missione che la scuola italiana compie. E che ogni insegnante ma proprio tutti, compiono.

A distanza tutto questo non esiste. A distanza tutto questo non esiste e non è possibile.

Nella mia scuola, molto a malincuore, dopo oltre trent’anni, è stato annullato un viaggio in Francia, un gemellaggio che ha una tradizione consolidata. La mia didattica quotidiana, insegno lingua francese, prevede, naturalmente, nella descrizione di un paese transalpino, quella di uno esistente davvero, ci siamo stati decine di volte, relazioni personali, amicizie, accoglienza sono scaturite, persino occasioni di lavoro, affetti, in seguito a questi viaggi.

Non abbiamo neppure avuto il tempo di riflettere sul senso di questa perdita.

E non è solo questo. Per effettuare la didattica a distanza vengono adottate piattaforme le più disparate. Sapendo che il responsabile per la privacy dello Stato tedesco dell’Assia, la regione di Francoforte, per intenderci, grande ed equivalente alla Lombardia, ha espressamente vietato e bandito ogni uso nelle proprie scuole di Michael Ronellenfitsch Open Office 365 e il sistema Windows 10, l’accusa, provata, era che questo sistema violava le norme europee e dell’Assia sulla riservatezza dei dati che in base al Cloud Act di Donald Trump, Windows puramente e semplicemente inviava negli Stati Uniti: detto semplicemente, le scuole che usavano quel sistema erano  profilate, spiate, una messe di dati sensibili regalati agli istituti americani. Noi siamo tenuti alla riservatezza, siamo tenuti alla vigilanza più scrupolosa su questi dati, adoperiamo, per esempio, siamo tenuti a farlo, sistemi di mail criptati ed ogni volta dobbiamo ricevere un codice apposito quando comunichiamo dati sensibili su alunni diversamente abili. Allora, non si pone la necessità assoluta di una piattaforma nazionale garantita dallo Stato italiano e  non da Google, Microsoft o chissà da chi, ente multinazionale privato che dei nostri dati può fare e fa quello che vuole ai fini di una profilazione di massa di ogni tendenza, pensiero, espressione di problematicità nella  nostra scuola?  Gli insegnanti non possono e né devono tacere su queste cose.

Se noi docenti non siamo l’espressione più viva e consapevole dei presupposti ontologici del nostro fare scuola anche a distanza, non siamo docenti. Lo Stato deve provvedere all’adozione di una propria piattaforma per la didattica a distanza, questo è il minimo dovuto, per garantire la sovranità nella gestione dei dati. Non è possibile che un insegnante, in buona fede, lavori su piattaforme telematiche, Google, per esempio, col dubbio di essere spiato, profilato, sorvegliato. Se qualcuno ha la legittimità, in base a presupposti legali incontrovertibili e dimostrabili in sede legale, questi è lo Stato. Solo lo Stato, nelle vesti del Ministero della pubblica istruzione e nessun altro.

Esistono altri pericoli, e parlo di minacce ai diritti del lavoratore, a proposito di “didattica a distanza”. Se un insegnante si rompe una gamba, e quindi sta a casa, sarà tenuto, per il futuro, a lavorare comunque a distanza? Una domanda non peregrina come potrebbe sembrare.

Questo improvviso esperimento di massa chiamato “didattica a distanza” pone innumerevoli e gravosi dubbi, che non soltanto gli “esperti” siano chiamati a pensare ed  elaborare strumenti di risoluzione delle criticità, che ciascun docente si debba porre questioni come queste, è ineludibile. Il mondo della scuola deve pensare. Al mondo della scuola appartiene il paese Italia per intero.

Ho provato ad esprimermi, a cercare di capire. Poi, sono certamente persuaso che è meglio, in tempi di quarantena, di assoluta e necessaria impossibilitò di una vita sociale normale, impegnare gli alunni in video conferenze, diversamente, molti, cosa farebbero? Solamente, sulle piattaforme adoperate, sulla garanzia del trattamento dei dati, su infinite e spinose questioni del controllo e  della democrazia, sulla libertà del pensiero, credo che si debba ragionare e non poco.

 

Gli autori

Teodoro Margarita

Teodoro Margarita è insegnante di lingua francese nella scuola dell'obbligo. E' stato presidente di Civiltà contadina.

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