Basterebbe farsi un giro nel centro affollato di una qualsiasi città, in un qualunque pomeriggio di sabato per accorgersi che oggi il mondo vero è diventato una favola, specialmente per le ultime generazioni. Convinto della sua inattualità, l’aveva già preannunciato Friedrich Nietzsche, il filosofo dello Zarathustra, da Torino, da quell’alloggio di via Carlo Alberto in cui alla fine di settembre del 1888 terminò di scrivere la Prefazione a Il crepuscolo degli idoli (sottotitolo: Come si filosofa col martello), ossia le pagine che dovevano costituire il primo capitolo della sua ultima opera, La volontà di potenza, cioè il suo “Vangelo dell’avvenire”, nel quale profetizza “la storia dei prossimi due secoli”.
In effetti, nel bisogno di mantenersi continuamente connesse con lo smartphone alla rete e di far parte attiva di uno o più social media si può leggere un fatto decisivo per queste generazioni, ossia il fatto che la realtà sociale si sta dissolvendo a vista d’occhio dinanzi ad esse, poiché il legame sociale è stato tranciato alla radice e la linfa vitale ne risulta atrofizzata. Di conseguenza il vero mondo di riferimento per esse è diventato inevitabilmente quello virtuale, cioè quello del Web – certo non meno spietato dell’altro –, perché quello reale, fatto di cose e persone concrete, è divenuto se non d’impiccio, almeno un fastidioso residuo materico del passato in rapida dismissione. Questo mondo reale, su cui tuttavia i giovani continuano a vivere e quasi a volteggiare come angeli kleeiani del fango e delle macerie, è effettivamente diventato per loro un banale sostegno, una base cementizia, una protesi da usare come semplice piedistallo su cui poggiare i tablet; si potrebbe definire una sorta di proscenio in disfacimento in cui il fatto che il tempo, a causa dell’accelerazione impressa dalle tecnologia alla biologia, sia stato ormai ridotto quasi a zero e lo stesso spazio fisico sia del tutto inutile, non li ha poi danneggiati così tanto, poiché hanno imparato a muoversi altrettanto agevolmente anche all’interno dello spazio virtuale. Questo mondo appare loro come un immenso Jurassic Park o al massimo – per vedere il bicchiere mezzo pieno – come una specie di ampio museo, una teca, un bazar, un outlet, un grande mercato di roba vecchia, nel quale essi si aggirano frettolosamente e distrattamente ascoltando la ripetitività minimalista di certa musica new age che fa da angosciosa colonna sonora a questa grigia realtà; realtà che si mostra anche – per vedere il bicchiere mezzo vuoto e nonostante ogni impegno ambientalistico – come un deposito, una discarica a cielo aperto, un deserto fatto di dune sotto cui giacciono numerosi strati di pattume formati da tutte quelle merci in inarrestabile aumento e in incontenibile estinzione, da quei prodotti (specie quelli plastificati) che vanno subito in disuso e che, proprio per questo, vengono comunque appositamente creati e fabbricati da volenterosi operai per far sì che perdano valore al momento stesso dell’acquisto. Oltre al valore d’uso, infatti, le merci qui perdono immediatamente anche il valore di scambio, perché niente in questo mondo sembra più avere un valore in sé. Al moderno ideale dell’aver cura delle cose e delle persone si è sostituito nell’evo postmoderno, nel giro di quattro o cinque decenni, quello del consumismo, dell’usa e getta. È come se – proprio al contrario di quanto avveniva negli anni del boom economico – Thanatos, l’impulso di morte, avesse sottomesso Eros, l’impulso di vita; come se ogni impulso naturale di vita fosse stato minato all’origine da disfacimento e morte, all’unico scopo di far sì che queste due creature del nulla potessero diffondersi, crescere e moltiplicarsi dappertutto, il più in fretta possibile.
Dopo le bordate del suo positivismo dissacratore, con il martello alla mano quel filologo-filosofo esultava come un folle all’idea che una volta frantumato, polverizzato e annichilito, o, come dice egli stesso, reso inutile e superfluo, una volta cioè confutato, il mondo vero – ossia quello delle idee: oggi, nell’epoca dell’oltre-postmodernità, si direbbe quello delle ideologie, dei “grandi racconti”, sì, insomma, quello dei modelli platonici da cui, secondo lui, sarebbe dipesa tutta la morale del racconto cristiano e con esso quindi l’inizio della decadenza dell’intero Occidente –, ebbene quel mondo andava definitivamente eliminato, e con ciò stesso, secondo quell’“anticristo”, non avrebbe avuto più senso continuare a pensare di vivere da succubi, da schiavi, da pecore in un mondo cavernoso e apparente, fatto di apparenze e dunque non vero, in un mondo inteso in ogni caso come falsa copia di quello luminoso e assolutamente perfetto. Compiuta nel tempo per mano dei più svariati governi all’insegna delle loro sempre più disastrose idee del bene, una tale rottamazione dionisiaca, avrebbe, secondo lui – ma anche secondo uno dei suoi maggiori interpreti torinesi recentemente scomparso – liberato, sgravato e comunque alleggerito l’umanità da quella che lui stesso definiva la nostra più lunga menzogna o il peso più grande. Non ci sarebbero più stati così né mondi iperuranici né mondi sublunari, ma solo un umanissimo mondo ultra-umano. Sì, da quella stanzetta di via Carlo Alberto, fissando forse nell’angolo in alto un ragno penzolante in ostinata attesa, egli esultava profeticamente ripetendo dentro di sé: «col mondo vero abbiamo eliminato anche quello apparente».
Ma per noi oggi, purtroppo – non se ne abbia il filosofo, lo spirito libero, il Freigeist (il quale ci inserirebbe subito tra i nichilisti reattivi) –, per noi oggi c’è poco da ridere, e tanto meno da danzare o da esultare, perché il cosiddetto mondo “apparente” – nel senso di “virtuale” – non solo non è scomparso, ma insieme al mondo ideale ha eliminato e continua ad eliminare anche quei pochi rimasugli di umanità ancora presenti nell’unico mondo possibile e reale. Ebbene, in forza della tecnologia – che è una delle espressioni dell’ultra-umanità nicciana, una delle manifestazioni della post-modernità di cui, peraltro, uno dei più importanti scrittori torinesi (Primo Levi) ha saputo prevedere alcune “forme viziate” –, ebbene, in virtù di questa sorta di “gaia scienza”, il mondo umano è finito con il diventare quella favola che le ultime generazioni possono raccontare ai loro figli e ai loro nipoti: – C’era una volta, tanti, ma non molti anni fa, un pianeta popolato da esseri umani che, durante la loro lotta di liberazione dal mondo falso, si erano illusi di vivere già in un mondo vero. Certo, nella generazione X (nata tra gli anni Sessanta e Ottanta) si avverte ancora un po’ di nostalgia per gli ideali coltivati dai giovani cresciuti nell’età del boom economico. Si tratta però di una nostalgia che tende ovviamente a dissolversi man mano che si procede verso l’“aurora”, verso le altre generazioni zarathustriane (Y, Z, α), dai millennials verso i nativi digitali, cresciuti sotto la pressione del dogma neoliberista, secondo cui quegli ideali sono assolutamente dannosi e quindi da rigettare come ostacoli importuni e obsoleti. Grazie alla gaia scienza tecnologica, dunque, oggi quel mondo reale e ancora fin troppo umano è stato ridotto a semplice hardware utilizzabile da un Apparato, da un software, la cui realtà ultra-umana è costituita da un’Apparenza che paradossalmente non appare mai e che si serve delle sue App per monitorare gli utilizzatori, per sfruttare e dominare tutto quel materiale umano e non umano a sua completa disposizione.
Tutto ciò per dire che, nonostante la secolarizzazione, il nichilismo europeo nicciano e il tanto decantato crepuscolo degli idoli, gli esseri umani non hanno affatto abbandonato l’altrettanto osteggiato dualismo platonico, poiché anche oggi la tendenza della realtà virtuale è di ricreare con l’intelligenza artificiale nuovi idoli o quanto meno una duplicità, una nuova forma apollinea dell’ineguaglianza sociale. Da una parte, infatti, oggi si vede il ricostituirsi di una dimensione divina, vera, perfetta, oltre-umana, algoritmica e quindi a suo modo anche trascendente; dall’altra tuttavia è ancora più visibile una dimensione materiale, umana, falsa e imperfetta. Un’imperfezione tragica che – lo notiamo purtroppo nelle tragedie quotidiane – risulta insuperabile e tanto più evidente e umiliante quanto più l’umanità tende – nel senso più della proclività, del piano inclinato, che dell’ascensione o aspirazione – verso quell’ideale di perfezione ultra-umana. Progresso e rovina, diceva Hannah Arendt a tal riguardo, sono le facce di una stessa medaglia e le masse, secondo gradi differenti, ne sono consapevole parte attiva.
L’avvicinamento dei giovani al virtuale non è affatto dunque il frutto di una loro libera scelta. Se essi inclinano al mondo virtuale è perché il mondo reale, non solo in occidente, non ha quasi più nulla da offrire loro. Ha piuttosto da sottrarre. Contagiata da un’inestinguibile spirito di vendetta, contraddistinta da una implacabile sete di potere e di dominio, soprattutto miope e incapace di limitare con la tanto invocata ragione gli effetti nefasti dell’odio, l’irresponsabilità della classe politica mondiale (impudicamente al di là del bene e del male in quest’epoca della post-verità) ha reso inospitale e inabitabile il pianeta reale, rendendo con ciò stesso del tutto insicuro il futuro per le nuove generazioni. Più che una scelta, quindi, il mondo virtuale per queste generazioni rappresenta una via di fuga dal mondo reale e dalle sue disperate solitudini, colmabili forse solo con le decisioni scellerate di cui questo mondo è responsabile; un’evasione da un mondo che si rivela sempre più disumano, cinico, spietato e per fortuna in estinzione; un mondo che, come se nulla fosse, continua pervicacemente a voler trarre sempre maggiore profitto non solo dagli strumenti di distruzione, ma anche dagli spasimi e dagli ultimi sospiri dei suoi abitanti, considerati sin dalla loro nascita come semplici consumatori da consumare, come suoi ostaggi, come propri oggetti di scambio, come scudi umani, in ogni caso come materia vivente, come corpi da usare e da sfruttare al momento opportuno.
Si tratta di un mondo in cui, come si vede, si può apparire filo-israeliani senza con ciò negare, ma anzi per celare il proprio antisemitismo e il proprio razzismo; un mondo in cui si fanno scoppiare altre guerre per sottrarre armi al nemico; un mondo che ha in odio la memoria e soprattutto la storia, perché questa disciplina insegna a distinguere e quindi a capire dove sono le ragioni e i torti dei fatti, dove stanno il bene e il male, perché – e qui sta l’errore umano – più atroci sono gli effetti nel presente e più si è indotti a non risalire alle cause nel passato. È purtroppo un mondo ottuso e per nulla lungimirante che mischia biopolitica e thanatopolitica e che crede freddamente nel fatto che il suo progresso possa dipendere persino dalla mercificazione dei diritti fondamentali degli uomini. Finanche del diritto alla vita. Profondamente condizionato dal suo sistema economico, esso ha implicitamente approntato un contratto universale, in base al quale il voler o poter continuare a vivere – a respirare l’aria, a nutrirsi, ad esistere – non può più essere gratis, considerato come un dato, un puro dono, ma come una concessione che, come tale, ha un prezzo, un prezzo che nel tempo aumenta sempre di più fino a risultare quasi impossibile da pagare, se non con la vita stessa degli esseri viventi di ogni specie.
Con ciò siamo quindi ben oltre la classica proletarizzazione. Più che andare avanti e progredire, nell’epoca dell’oltre-postmodernità – che a causa del suo procedere eccessivamente turbinoso tende non solo a fare persino di sé stessa qualcosa di post-, ma anche a generare un movimento apparente, ossia appunto virtuale, assurdo, nullo, zenoniano –, ebbene in questa nostra epoca, che si affanna per niente e in vista del nulla, siamo invece regrediti alla pura e semplice sottomissione, al visibile, quotidiano e normale oltraggio delle vittime indifese predestinate alla schiavitù sociale. Si tratta di una situazione di fronte alla quale non ci sono Costituzioni che tengano e nella quale i Parlamenti nazionali e internazionali mostrano tutta la loro insufficienza e la loro debolezza. Secondo la perversa logica privatistica, infatti, cioè secondo la logica del turbocapitalismo selvaggio e politicamente incontrollabile – in seno alla quale ogni richiamo al diritto e al sistema pubblico non può che risultare illogico –, non c’è, non ci può essere momento dell’esistenza umana su cui non sia possibile speculare e lucrare.
E certamente a ben poco valgono quelle filosofie che oggi si presentano come un’ideologia ancora più pragmatica della post-modernità, come neo-ontologia o come neo-realismo, allo scopo di salvare il salvabile, cioè di giustificare questa realtà virtuale e di impedire che anch’essa venga rigettata nell’immensa catasta del nulla, nell’abisso senza fondo, allo scopo soprattutto di far capire che tale realtà non è affatto così apparente come si crede, ma che anzi, proprio in questa sua essenza virtuale, essa ha una propria logica, una struttura silicia, un valore intrinseco, e finanche delle possibilità emancipative, delle potenzialità per un’ulteriore libertà, per un maggiore benessere dell’umanità. No, non servono questi rimedi speculativi. Occorre invece continuare a lavorare in profondità per infondere nella coscienza delle nuove generazioni il senso della responsabilità e della giustizia. Forse così esse potranno tornare ad aver fiducia in questo mondo. Anche perché, occorre infine ribadirlo in tutta chiarezza, non sono state esse ad avere girato le spalle al mondo reale, ma, al contrario, è stato piuttosto il mondo reale che le ha tradite, non garantendo ad esse non soltanto una vita vera, reale, libera e dignitosa, ma più semplicemente una vita.