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10/11/2023 di: Michele Canalini
La scuola è in continua e incessante trasformazione, come sa chi la vive ogni giorno. Tale trasformazione è così incisiva da lasciare i suoi segni di anno in anno, e non di decennio in decennio. Per questo, talvolta provo rabbia quando leggo opinioni sul mondo dell’istruzione di persone che non frequentano più le aule da diversi anni, e tuttavia continuano a parlarne con presunta cognizione di causa. Invece, non è così.
Facciamo un esempio: il rapporto della scuola con la tecnologia e con gli smartphone. È vero che questi ultimi sono al centro della scuola ormai da almeno due decenni ma questo non significa che il loro impiego sia sempre lo stesso. Anzi, rispetto ad alcuni anni fa, lo smartphone ha sommerso l’intera realtà della didattica, ponendo insegnanti ed educatori di fronte a un dilemma: restarne fagocitati o sopravvivere in qualche modo.
Prendiamo i libri di testo degli ultimissimi anni, per non dire proprio dell’anno in corso. Una volta, le pagine scritte dei manuali di qualsiasi disciplina si presentavano caratterizzate da una lunga esposizione di parole che riempivano la pagina bianca, con l’aggiunta, al più, di qualche immagine a spezzare la monotonia espositiva. Oggi, invece, un manuale scolastico è molto diverso, perché è molto di più: è diventato un vero e proprio “ipertesto” in formato cartaceo, dove la parte scritta è limitata a una piccola sezione del foglio, intervallata da molteplici immagini, disegni, fumetti, link di richiamo, riquadri di tipo interattivo (cioè con un inevitabile collegamento alla rete) e sempre più di frequente Qr Code, ovvero quei codici grafici (a quadretti bianchi e neri, per capirci) in grado di memorizzare le informazioni che possono poi essere decrittate in seconda istanza tramite lo smartphone. Tutto questo ha una ragione. Non soltanto quella commerciale delle case editrici che immettono sul mercato questa tipologia di volumi. La ragione è quella, più a monte, di essere costretti, come produttori di manuali scolastici, a replicare una didattica senza l’uso diretto di device ma che abbia comunque la modalità di fruizione dei contenuti di uno strumento digitale. Si deve privilegiare un tipo di lettura che sappia fronteggiare una quantità esponenziale di dati, informazioni, immagini e pure suoni e filmati, anche se tale lettura si presenta solo su base cartacea. Tale tipo di approccio va incontro allo studente perché spezza la fluidità dell’esposizione verbale, favorendo una didattica “a salti”, come quella dello scorrimento delle pagine e delle immagini che solitamente si fa, in modo rapidissimo, con uno smartphone in mano. Il livello di influenza della tecnologia ha invaso anche il sistema nervoso, arrivando al punto di incidere “pur in assenza di dispositivi”, sulla psicologia di uno studente in classe. E non solo, purtroppo.
A fronte di tutto questo, spesso gli insegnanti restano smarriti. Da un lato, i manuali scolastici si presentano con questa forma perché devono conformarsi a un nuovo stile di apprendimento che ha come presupposti l’incapacità di concentrarsi di un giovane anche solo per pochi minuti; dall’altro, gli insegnanti spesso non sanno quali strategie adottare per arginare la mancanza di astrazione dei ragazzi. Ciò offre uno spaccato della vulnerabilità cognitiva delle nuove generazioni. Lo ha ricordato recentemente in una intervista a “Sette” del Corriere della Sera (6 ottobre 2023) uno scrittore intelligente e sensibile come Jonathan Safran Foer, quando ha detto che «il problema della tecnologia oggi è che dovrebbe fornirci servizi e invece sono più le cose che prende da noi rispetto a quelle che ci dà: ci impoverisce, ci rende versioni ridotte di noi, meno creativi, meno premurosi, meno empatici».
Questo non vuol dire contrapporre analogici o digitali, vecchie generazioni e millennial. Ogni generazione è figlia del proprio tempo, per cui anche la scuola deve imparare a convivere in modo proficuo con la tecnologia; e l’unico orizzonte che ritengo valido è quello, simultaneo, di valorizzare il proprio tempo e di non disperdere le risorse dei giovani. Sul primo, la scuola può avere ancora un controllo prioritario: un bravo insegnante, prima di tutto, è quello che riesce a impiegare il proprio tempo di fronte agli allievi con lezioni attrattive e con una didattica coinvolgente, l’unica in grado di fronteggiare la tecnologia digitale nell’impiego del lungo tempo che uno studente passa a scuola. Ma da questo punto di vista, i segnali al momento sono poco incoraggianti: il più delle volte tutto è lasciato all’estemporaneità del singolo formatore e alla sua creatività. Il secondo aspetto, che continua a essere quello cruciale, è il rischio di disperdere le qualità migliori dei nostri ragazzi. Ricorda ancora Safran Foer che «i giovani si prendono davvero sul serio perché essi si sentono la star del film della loro vita». Dunque, al cospetto di questa consapevolezza, è improcrastinabile un nuovo approccio didattico e pedagogico.
Ci sono alcuni numeri che parlano chiaro. Un recente sondaggio di Review.org (vedi educazionedigitale.it) ha preso in considerazione un campione di mille americani di diverse età, negli anni 2022-2023. Tale sondaggio ha messo in luce come il 57% degli intervistati abbia esplicitamente dichiarato di sentirsi dipendente dall’uso del proprio cellulare. All’interno di questo campione, poi, il dato percentuale più alto è quello della Generazione Z (28,57%) mentre, di tutti gli intervistati, ben l’89% ha ammesso «di controllare il proprio telefono entro i dieci minuti dal risveglio, con una crescita rispetto al 2022 pari ad oltre il 10%». Il dato americano è riproducibile anche nella nostra società ma non si tratta soltanto di far alzare gli occhi dei nostri ragazzi, inchiodati sugli schermi. Si tratta di un fenomeno più profondo, che nasconde un malessere che la scuola fa sempre più fatica ad arginare: la crescita di ansia delle nuove generazioni. Si parla, a tal proposito, di “nomofobia” che indica «il timore ossessivo di non poter disporre del telefono cellulare, perché non lo si ha con sé o ci si trova in una zona priva di campo».
Eccoci, in conclusione, ad avere sullo stesso piano l’impiego del tempo da parte dei giovani, la valorizzazione delle loro risorse e, per ultimo, la nomofobia. Quale ruolo di attore debba ricoprire la scuola in questa dinamica è chiaro. Occorre un nuovo “pensiero” rivoluzionario del fare scuola, che garantisca ai nostri allievi di passare assieme del tempo, senza improvvise paure per il timore di disconnessione dalla rete. Occorre dunque non solo fare scuola nel senso tradizionale ma garantire di più: una presenza della figura del docente atta ad assicurare serenità e benessere formativo agli allievi, senza per questo rinunciare alla severità nella richiesta di competenze all’allievo. Insieme, la scuola deve scrollarsi di dosso la nomea di ambiente che non combatte la dipendenza digitale e che, in modo involontario, la alimenta fino alla diagnosi di vere e proprie patologie.
Se una scuola senza voti sperimentata da più istituti in tutta Italia è utile in tale direzione, ben venga. Io l’appoggio con convinzione, al contrario della scrittrice Paola Mastrocola che ha sostenuto la necessità della permanenza di un giudizio esterno per gli studenti (Scuola senza voti, Mastrocola: «Non sarebbe educativa. Senza la sofferenza di un 4 non proveremmo l’ebbrezza di un 8», su OrizzonteScuola.it). Nel farlo, l’ex docente ha utilizzato la metafora del cronometro per un mezzofondista, analogo al voto e inteso come uno strumento cruciale per valutare il raggiungimento degli obiettivi prefissati. La metafora mi ha riportato alla memoria il rapporto tra letteratura e industria negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, quando il cronometro era usato dall’addetto al controllo degli operai e delle operaie alle presse dei grandi stabilimenti industriali e l’obbligo di rispettare i tempi di produzione spingeva uomini e donne verso una forma di alienazione senza scampo di fronte a quell’allucinante fatica. Lo ricordava in modo magistrale Ottiero Ottieri, uno dei più perspicaci intellettuali in grado di scandagliare l’inquietudine nascosta tra le pieghe del progresso industriale dell’Italia del boom economico. Quella stessa inquietudine che, a mio giudizio, oggi è occultata dietro i banchi della istruzione dell’Italia “millennial”.