Oltre l’eurocentrismo: la lezione dello sport

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L’eurocentrismo è la deriva che ci fa apparire, insediati nel vecchio continente, come il centro del mondo. Circa 500 milioni di abitanti, che rappresentano una piccola percentuale dell’umanità dell’orbe terracqueo (pressappoco il 6%). Ma i rapporti, anche demografici, cambiano velocemente. L’Europa rimpicciolisce, l’Africa si gonfia di abitanti. Nel nostro coté privilegiato ignoriamo che Paesi come Indonesia e Filippine cumulano circa 400 milioni di abitanti. Un’ignoranza colpevole perché non sa immaginare un futuro diverso da quello attuale. L’Europa è regno di cultura, di tradizioni, di progresso ma il centro dell’economia mondiale si è irreversibilmente spostato altrove. I nuovi equilibri vedono protagonisti, anzitutto, gli Stati Uniti, la Cina e anche la Russia (benché, nell’immaginario bellico, 160 milioni di abitanti cari a Putin vengano fatti risiedere in Asia, nell’illusione che il nostro occidente resti, così, luogo di giustizia e di pace).

Anche il mondo dello sport è coinvolto dal cambiamento e, dunque, anche in esso la leadership eurocentrica va riveduta e corretta.

Nella scherma, un tempo dominio europeo, si fanno avanti Africa e Asia. Nel nuoto i pregiudizi razziali sono stati azzerati a partire dai successi di Nesty. Come nella ginnastica, dove il ritorno della Biles sembra foriero di nuovi miracoli sportivi. Ma la cosa è evidente, in particolare, nell’atletica, lo sport universalmente più praticato nel mondo. Basta osservare il medagliere dei recenti mondiali di Budapest (pur ospitati della vecchia Europa, e dunque con un indubbio favore logistico-ambientale). Il medagliere non è mai stato così variegato e aperto alla globalizzazione. Ben 48 nazioni sono andate a medaglia e non c’è di che sorprendersi se Kenya, Etiopia e Uganda sono, in questa graduatoria, davanti all’Italia (che pure ha centrato un ragguardevole bottino). Né fa meraviglia pescare in questo elenco Qatar, Grenada, Porto Rico, Pakistan, Isole Vergini, Botswana, Venezuela, India, Burkina Faso, Bahrein. È il mondo dei Brics che chiede spazio e si insedia. L’Africa, i cui atleti e atlete vengono spesso nazionalizzati in Europa (lo fanno la Spagna, l’Italia, la Turchia, l’Olanda), non è più solo fondo ma anche velocità e discipline tecniche. E, poi, chi avrebbe immaginato che un indiano (Chopra) dominasse il giavellotto mettendosi alle spalle un connazionale e un rivale pakistano? Una piccola eccezione si trova nel basket. Nei recenti mondiali, sei delle otto squadre arrivate ai quarti di finale erano europee e ad esse si sono affiancate gli Stati Uniti e il Canada, da sempre nazioni predominanti sotto canestro. Ma anche qui ci sono state rilevanti novità, con una Repubblica Dominicana in grado di battere l’Italia e un Sud Sudan che si è conquistato la partecipazione ai Giochi Olimpici del 2024 (traguardo per ora precluso all’Italia).

La globalizzazione, che ha tanti aspetti contraddittori nell’economia, nello sport apre le frontiere e dovrebbe svegliare le coscienze, neutralizzando il razzismo. Del resto la robusta iniezione di pallavoliste integrate ha fatto la fortuna della nazionale femminile azzurra di volley. Lo sport – parte fondamentale della società civile – è di esempio a una politica indietro di decenni, che si limita a discettare di ius soli e/o ius culturae, chiudendo gli occhi di fronte alle nuove realtà. È finalmente finito il colonialismo, anche sportivo. Ci si spalanca davanti un mondo sportivo più aperto, solidale e forse anche democratico.

Gli autori

Daniele Poto

Daniele Poto, giornalista sportivo e scrittore, ha collaborato con “Tuttosport” e con diverse altre testate nazionali. Attualmente collabora con l’associazione Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie. Ha pubblicato, tra l’altro, Le mafie nel pallone (2011) e Azzardopoli 2.0. (2012).

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