Sul film di Bellocchio Rapito (https://volerelaluna.it/andiamo-al-cinema/2023/06/05/rapito-di-marco-bellocchio/) s’è scritto già abbastanza, specie sul suo valore artistico e sulla sua resa cinematografica, oltre che sulla sua adeguata rappresentazione di un evento realmente accaduto e dei suoi protagonisti. Ma esso dà modo di riflettere anche su alcuni concetti di fondo che stanno alla base del vivere civile e del modo di intendere la religione, che traspaiono con evidenza dalla sua narrazione pur non essendo sempre notati con la dovuta attenzione. Essi prescindono dall’accuratezza o meno della narrazione o dalla verosimiglianza con cui sono stati rappresentati i personaggi che lo animano.
Vorrei qui soffermarmi su un solo suo aspetto, più volte rappresentato dalla narrazione. Innanzi tutto l’idea, nutrita dalla giovane che battezza Edgardo ancora in culla: che in assenza di tale sacramento il bambino sarebbe finito dritto al Limbo, senza così godere della possibilità di salvezza paradisiaca in caso di morte prematura, in quanto «ai piccoli non è lasciata alcuna possibilità di guadagnare la salvezza, se non è loro impartito il Battesimo» (Catechismo romano, vigente al tempo degli eventi narrati, § 177). In tal caso l’atto del battesimo è portatore di un bene che oggettivamente si trasferisce sul piccolo Edgardo, indipendentemente dalla sua volontà o dalla sua accettazione di tale sacramento. È la stessa motivazione che ancora oggi fa battezzare i bambini in fasce, per evitare il pericolo cennato. Un secondo atto significativo è quando il giovane Edgardo si ribella, dopo avere incontrato la madre, alla propria condizione e si dimena invocando il ritorno nella sua famiglia naturale; il rettore, nel calmarlo, gli ripete più volte di stare quieto in quanto quello che gli stanno facendo al Collegium Catechumenorum è “per il suo bene”. Ancora una volta viene invocato un bene somministrato indipendentemente dalla volontà del soggetto cui esso è indirizzato, in maniera autoritaria, perché esso esercita i suoi effetti a prescindere dalla sua libera accettazione. Infine, nelle scene finali, quando Edgardo cerca di somministrare il battesimo alla madre in punto di morte, perché solo così “la salva”, anche se in questo caso la sua mano benedicente viene fermata da quella materna che dice di essere nata ebrea e di voler morire tale; nel caso in cui l’atto del battesimo fosse stato compiuto (ad es. in un momento di incoscienza della madre), anche in questo caso esso avrebbe avuto il suo effetto, indipendentemente dalla volontà e dalla sua accettazione da parte di chi lo riceve.
In tali atti si esprime la dottrina della chiesa cattolica – accettata al tempo degli eventi narrati, ma anche presente nel suo ultimo catechismo, ancora in vigore – per cui «i sacramenti agiscono ex opere operato (lett. “per il fatto stesso che l’azione viene compiuta”), cioè in virtù dell’opera salvifica di Cristo, compiuta una volta per tutte» (ivi, § 1128). Oggi si aggiunge opportunamente che «tuttavia i frutti dei sacramenti dipendono anche dalle disposizioni di colui che li riceve», ma al tempo della narrazione tale cautela non veniva esercitata, per cui non solo il sacramento era efficace a prescindere dalla moralità o santità di chi lo somministra, ma anche indipendentemente dalla volontà di chi lo riceve. Il piccolo Edgardo era fatto cristiano anche se battezzato, in caso di necessità, da una serva ignorante e superstiziosa, indipendentemente dalla volontà sua o di quella della sua famiglia (non a caso si indaga, nel corso del processo intentato all’inquisitore Feletti, se il piccolo battezzato fosse o meno in punto di morte – § 174 del Catechismo romano); e nessuno poteva togliere quanto lo stesso Dio aveva posto, onde il non possumus pronunciato da Pio IX di fronte alle rimostranze della comunità ebraica e dell’opinione pubblica contraria al “rapimento”; e anche l’obbligo sentito dai religiosi di educare cristianamente il povero Edgardo, che giovane com’era poteva essere plasmato a dovere facendo di esso un buon sacerdote, come di fatto è avvenuto, tranne qualche scatto adolescenziale di ribellione proveniente, in modo istintivo e irriflesso, dalla sua precedente condizione e dalla violenza subita col sottrarlo alla famiglia d’origine.
Ad operare in tutti questi casi è il concetto di “bene oggettivo”; in base ad esso una comunità o una persona ritiene un atto (in questo caso il battesimo) o un principio (dottrina, credenza) da lui sostenuti talmente e al di là di ogni dubbio, in modo assoluto e a prescindere da ogni altra opinione, da sentirsi autorizzati a compierlo in ogni caso, indipendentemente dalla sua accettazione da parte di chi lo riceve. Il bene somministrato non ha dunque bisogno di condivisione da parte di chi lo riceve – così come avverrebbe, ad es., qualora il battesimo fosse compiuto su adulti pienamente consenzienti; esso è valido in ogni caso e viene attuato “per il bene” di chi lo riceve. Ad essere qui in ballo non è l’ideologia – come spesso si sente dire impropriamente quando si parla della sua nocività – bensì il fanatismo, che può accompagnarsi o meno ad essa. Si può ben avere un quadro di riferimento con cui giudicare le cose del mondo, una tabella di valori in base ai quali orientare la propria vita; si potrebbe anche sostenere che nessuno da questo punto di vista è privo di un’ideologia per quanto rudimentale o sofisticata possa essere. Tutt’altra cosa è, invece, praticare il fanatismo, cioè la convinzione che la propria visione del mondo è così giusta, così certa, così inattaccabile (cosa assai facile da credere quando si pensa che essa traduca direttamente la volontà di Dio) da sentirsi autorizzati a imporla anche agli altri, le cui idee, visioni o quadro di valori sono di per sé ritenute errati, eretici e in ogni caso meno “evoluti” e “vere” di quella che si sostiene.
Tale violenza insita nella credenza del “bene oggettivo” – che è la vera protagonista della vicenda narrata nel film di Bellocchio – non è una specialità esclusiva della religione, anche se in suo nome sono state combattute cruente guerre e fatti numerosi eccidi, ma appartiene a tutti coloro che sono così irrefragabilmente convinti delle proprie idee da ritenersi autorizzati ad esportarle e imporle a coloro che ne hanno di diverse. Per molti anni è stato questo il “fardello dell’uomo bianco” occidentale che si sentiva autorizzato a “colonizzare” e “civilizzare” il resto del mondo; ed è il medesimo sentimento che ancora oggi giustifica la divisione manichea del mondo in buoni e cattivi e distingue tra violenza “giusta” e “ingiusta”, senza tenere conto del modo in cui gli altri pensano il “bene” e il “male” o delle tradizioni degli altri popoli, cui essi sono attaccati così come noi lo siamo alle nostre tradizioni occidentali, aventi la loro radice nell’illuminismo, oggi tanto vituperato da cattolici conservatori, da reazionari ma anche da parte di chi si sente populista e/o “comunitario”.
Il vero pericolo non sono dunque le ideologie in quanto tali, ma quando queste diventano preda del “fanatismo del bene”, che trae alimento dalla incapacità di pensare “con la testa degli altri” e di realizzare l’esistenza di molteplici visioni del mondo, che devono essere rispettate e con le quali bisogna imparare a convivere. Altrimenti, l’unica soluzione è lo sterminio reciproco, con le “conversioni” forzate che in altri tempi han trasformato in cristiani interi popoli (come ad es. fatto da Carlo Magno con i Sassoni). Non si tratta nemmeno di accedere a una visione “relativista” – così come di solito si paventa in ambienti religiosi e no (della lotta al relativismo Benedetto XVI ha fatto un proprio cavallo di battaglia) – ma semplicemente di prendere atto del pluralismo esistente nel mondo e nelle società una volta caratterizzate da una comune credenza, non scalfita nella sua presa egemonica da piccole minoranze (come gli ebrei), che venivano al più tollerate, ma non rispettate. Nessuno è relativista (al massimo si può essere nichilisti, cioè non credere in nulla, anche se tale posizione può essere di per sé auto-confutatoria): ciascuno è convinto delle proprie idee, dei propri valori, della propria fede. Ma la constatazione dell’esistenza plurale di fedi, valori e credenza, la loro ammissione, impone la rinuncia al “fanatismo del bene”, se si vuole convivere civilmente insieme. Impone non la tolleranza degli altri (che ha un sottofondo di fatica e sopportazione), ma il loro rispetto, che è qualcosa di più: è riconoscere che anche il “diverso” – con i suoi arredi ideologici – ha la stessa dignità che attribuiamo a noi stessi e nei cui confronti bisogna comportarsi positivamente come vorremmo che ciascuno facesse nei nostri, non semplicemente e in negativo limitarsi ad esercitare la “regola aurea” del non fare agli altri ciò che non vogliamo sia fatto a noi stessi.
Sono il rispetto e la comune dignità a rendere una società civile, non una giungla di opposte fazioni in lotta reciproca per l’affermazione del “bene oggettivo”. Nell’avere posto tale problema sta uno dei tanti meriti del film di Bellocchio.
Certo oggi riconosciamo il fanatismo come un pericolo e cerchiamo il DIALOGO
Con chi la pensa diverso da noi.. ma che fatica… perché per il dialogo devi starci dietro a quel che dici e anche ascoltare profondamente.. altrimenti diventa un monologo a due…