Il pubblico ministero non è “il padrone” dell’azione penale

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1. «Poche idee, ma confuse». D’istinto, verrebbe da commentare così, scomodando la verve ironica di Mino Maccari, le reazioni provenienti da non meglio precisate fonti del Ministero della Giustizia al provvedimento con cui il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Roma ha respinto la richiesta di archiviazione nel procedimento a carico del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, indagato per rivelazione di segreti d’ufficio nell’ambito della vicenda Cospito, ordinando al pubblico ministero di formulare a suo carico l’imputazione (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2023/07/14/la-vicenda-giudiziaria-del-sottosegretario-delmastro-e-uno-scandalo-che-non-ce/). Probabilmente, però, si correrebbe il rischio di sottovalutare quelle esternazioni, inusualmente rimaste prive di paternità. Intanto, le idee che traspaiono non saranno molte, ma di certo non possono dirsi di poco conto. Provano a scardinare alcuni dei cardini portanti di quella complessa architettura che è il processo penale elaborato nel 1989 affidandosi ad argomentazioni giuridicamente discutibili, qualcuna suggestiva, qualche altra decisamente improvvisata; alle orecchie di chi si occupa di giustizia penale suonano piuttosto confuse, ma potrebbero confondere i non giuristi, e convincerli che il nostro processo penale, notoriamente in crisi cronica, necessiti per risollevarsi proprio di riforme delle quali in realtà non vi è bisogno alcuno. Data la sapiente modalità di comunicazione con cui il messaggio è veicolato, non sorprenderebbe se in buona fede molti si ritrovassero arruolati tra i sostenitori di improvvidi ritocchi normativi, che potrebbero così contare oltre che sui numeri favorevoli in Parlamento anche sul supporto di una larga parte dell’opinione pubblica.

2. Per volontà di un giudice, dunque, il sottosegretario Delmastro verrà tratto a processo e dovrà difendersi nelle vesti di imputato dall’accusa di aver rivelato informazioni coperte dal segreto d’ufficio. Ambienti di Palazzo Chigi rispolverano il logoro refrain di una giustizia politicamente connotata: poiché «non è consueto che la parte pubblica chieda l’archiviazione» e che il gip «imponga che si avvii il giudizio», è «lecito domandarsi se una fascia della magistratura abbia scelto di svolgere un ruolo attivo di opposizione» e «di inaugurare anzitempo la campagna elettorale per le elezioni europee». Più cauto l’entourage del Ministro della Giustizia, secondo cui tale decisione sarebbe il frutto di una falla nella disciplina del procedimento di archiviazione, le cui conseguenze, se in questa occasione hanno coinvolto un soggetto “eccellente”, in futuro potrebbero riguardare «qualsiasi altro indagato». La vicenda – si dice – rivela un tratto di «irrazionalità del nostro sistema» processuale, evidentemente sfuggito agli autorevoli giuristi ai quali si deve l’elaborazione del cd codice Vassalli; un meccanismo «irragionevole», in contrasto con il sistema accusatorio, che, pure, quel codice ex professo si proponeva di realizzare; una presunta anomalia che renderebbe necessaria «una riforma radicale che (lo) attui pienamente». Il bersaglio delle critiche è noto come “imputazione coatta”: uno dei possibili esiti dell’udienza in camera di consiglio che il giudice per le indagini preliminari è tenuto a fissare quando non condivida la richiesta di archiviare il procedimento inoltrata dal pubblico ministero o quando a dissentire sia la persona offesa dal reato, in grado di indicare ulteriori indagini da compiere. La norma di riferimento è l’art. 409 comma 5 del codice di procedura penale: il gip può ordinare al pm di formulare entro i successivi dieci giorni l’imputazione, adempimento indispensabile per instaurare il processo. Si regolerà in questo modo quando ritenga che il mancato esercizio dell’azione penale, che prelude all’accertamento della fondatezza dell’accusa, si fondi su una lettura non condivisibile del compendio di elementi raccolti nelle indagini, sottovalutandone la portata. Ovvero, nella versione conseguente alla recente “riforma Cartabia”, ogni qual volta il pm non li reputi sufficienti a formulare una ragionevole prognosi di condanna, mentre per il gip sarebbero idonei a supportarla. L’ordinanza che dispone l’imputazione coatta incarna il più marcato intervento di controllo sulla scelta di inazione compiuta dal pm, permettendo al giudice che la ritenga indebita di imporne la trasformazione nel suo contrario.

3. Ebbene, quello che la nota anonima ritiene strumento irragionevole e irrazionale è in realtà presidio indispensabile per garantire il rispetto dell’obbligatorietà dell’azione penale sancita dall’art. 112 Costituzione, a sua volta proiezione dell’uguaglianza dinanzi alla legge sancita dall’art. 3.

Affermando che l’azione penale è obbligatoria, si intende dire che il pm, svolte le indagini a carico del soggetto accusato della commissione di un reato, è autorizzato a non portarlo a giudizio soltanto là dove ricorrono le condizioni previste dal codice di procedura penale per la richiesta di archiviazione. Ogni pubblico ministero, in quanto soggetto solo alla legge, è vincolato al rigoroso rispetto del catalogo del codice. Il più delle volte vi si atterrà, come pare ritenere la nota di via Arenula, e, abituati alla ultraventennale narrazione, dinanzi alle inchieste che coinvolgono esponenti politici, del pubblico ministero come organo fazioso che piega l’azione inquirente a moventi extra giuridici, dovremmo rallegrarci della rinnovata fiducia oggi riposta nell’operato della magistratura inquirente. Ma la posta in gioco è tale – «il procedimento di archiviazione deve servire ad accertare l’inesistenza dei presupposti dell’obbligo di agire e il provvedimento di archiviazione a esonerare il pubblico ministero, in via eccezionale, dall’osservanza di tale obbligo», spiegava ineccepibilmente il professor Glauco Giostra poco dopo l’entrata in vigore del “nuovo” codice di rito – che non può essere affidata unicamente alla spontanea osservanza del pm. Lasciare sguarnita di controllo la scelta tra esercizio dell’azione penale e richiesta di archiviazione vorrebbe dire correre il serio rischio che l’obbligo costituzionale di procedere sia disatteso, per un errore tecnico o per l’intento di sottrarre l’accusato all’accertamento delle proprie responsabilità, motivata da legami personali, sintonie politiche, presunte ragioni di opportunità connesse al suo status socio-economico o al suo ruolo istituzionale. Un ordinamento che prevede l’obbligo di trarre l’imputato a giudizio ogni qualvolta non ricorrano i presupposti per l’archiviazione della notizia di reato deve farsi carico di predisporre gli strumenti giuridici adeguati perché quell’obbligo sia rispettato. Dato che la rinuncia del pm ad agire determina l’impossibilità per il giudice di accertare la responsabilità dell’accusato, è perfettamente coerente che a tale compito sia chiamato l’organo giurisdizionale che sovraintende alla fase delle indagini. Solo in una visione ingenuamente ottimista tale controllo rappresenta una inutile ingerenza nell’operato del pm e la diversa valutazione espressa rispetto alle sue conclusioni una smentita inaccettabile, come sostiene la nota. Semmai, si tratta di una divergenza che due organi giudiziari esprimono sulla solidità accusatoria degli elementi raccolti in fase di indagine. Spetterà al giudice del dibattimento dire chi dei due abbia avuto ragione.

Nulla c’entra peraltro, in questa fase in cui il processo non è ancora iniziato e anzi rischierebbe di non aprirsi proprio, quella “terzietà del giudice” invocata dalla Presidente del Consiglio Giorgia Meloni come principio che, in un processo di parti, impedirebbe al giudice di sostituirsi al pm imponendogli di formulare l’imputazione. La premier ha l’accortezza di premettere l’inciso «per come la vedo io», come a far intendere che il suo non è parere giuridicamente qualificato, ma il ruolo istituzionale che riveste potrebbe comunque indurre qualcuno ad attribuire qualche credito a quella inesattezza giuridica. Come pure, prevedere che sia il giudice a valutare la correttezza della decisione del pm e a far prevalere il favor actionis non vale a sottrarre a quest’ultimo la prerogativa di «monopolista dell’azione penale», aspetto di cui le dichiarazioni di provenienza ministeriale si dicono preoccupate; ci si dimentica che continua a competergli la formulazione dell’imputazione, sebbene non si tratti di una iniziativa spontanea.

4. Immaginando i futuri scenari, in una recente intervista al quotidiano la Repubblica, il professor Bartolomeo Romano, consulente del Ministro della Giustizia, auspica un sistema processuale in cui il giudice raggiunto dalla richiesta di archiviazione non sia più nelle condizioni di ordinare al pm di procedere. Il fatto che quest’ultimo possa gestire senza controllo alcuno l’esercizio dell’azione penale non sarebbe preoccupante, in quanto «si tratta di una previsione che comunque va a favore della persona sottoposta alle indagini e che va letta quindi in chiave garantista». Nessun dubbio che la scelta del pm di non trarre a giudizio l’imputato favorisca quest’ultimo, ma altrettanto certo è che quando ciò avvenga per un errore tecnico o per un deliberato intento più che a una garanzia processuale ci troviamo di fronte a un indebito esonero dall’accertamento delle sue responsabilità penali, in violazione dell’art. 112 Costituzione. Ben poco ci rassicura la circostanza, sottolineata dall’intervistato, che rimanga «ferma la possibilità della persona offesa di opporsi alla richiesta di archiviazione». Questa possibilità serve semmai a propiziare quella «soluzione mediana» che il medesimo si dice disposto a mantenere, ovvero che «il giudice inviti il pm a fare ulteriori indagini su profili specifici» (art. 409 comma 4 cpp). Tale soluzione, disporre “indagini coatte”, nulla ha a che vedere però con le esigenze a cui sovrintende l’“imputazione coatta” di cui stiamo parlando; quest’ultima riguarda l’eventualità in cui secondo il gip dalle investigazioni compiute siano già emersi elementi che giustificano l’avvio del processo. Sollecitare nuove indagini non solo non sarebbe di alcuna utilità – su cosa dovrebbe indagare il pm se i dati che lo obbligherebbero a procedere sono già in suo possesso? – ma contrasterebbe con quell’obiettivo di efficienza cui sono rivolte da decenni tutte le riforme riguardanti il processo penale. E in ogni caso, effettuata l’integrazione investigativa, si ripresenterebbe il bivio esercizio dell’azione/richiesta di archiviazione e con esso la questione dell’eventuale elusione dell’art. 112 Costituzione.

5. In conclusione, ordinare l’imputazione coatta non è affatto una «questione politica», come ha sostenuto la presidente del Consiglio, ed è ben più di una «questione tecnica», come la definisce il Guardasigilli. Fino a quando la nostra Carta fondamentale continuerà a prevedere l’esercizio obbligatorio dell’azione penale, l’imputazione coatta è un istituto costituzionalmente irrinunciabile. Si potrà pensare di farne a meno soltanto se si vorrà mettere mano all’art. 112 Costituzione e certamente non attraverso la scorciatoia di intervenire sulla disciplina dell’archiviazione a Costituzione invariata. Non mancheranno buoni argomenti per contrastare il tentativo di modificare l’enunciato costituzionale trasformando l’esercizio dell’azione penale da obbligatoria a discrezionale. Intanto, ogni ordinanza di imputazione coatta sottrae un argomento ai sostenitori della separazione delle carriere, perché dimostra che non è affatto un requisito essenziale per garantire l’indipendenza del giudice rispetto alle richieste del pm. Colui che, investito di una richiesta di archiviazione, ordina al pm di procedere è per definizione un giudice indipendente dai desiderata dell’organo d’accusa, pur facendo parte del medesimo ordine giudiziario.

Gli autori

Chiara Gabrielli

Chiara Gabrielli è professoressa associata di diritto processuale penale presso l’Università degli studi di Urbino Carlo Bo, dove insegna anche ordinamento giudiziario. Si interessa di temi che intrecciano la Costituzione, il processo penale e la politica. Tra i suoi libri, la monografia "Intercettazioni e cariche istituzionali" (Giappichelli, 2017). Fa parte del consiglio di presidenza dell’associazione Libertà e Giustizia. È tra i curatori del festival Parole di Giustizia.

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