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06/06/2023 di: Monica Quirico
Giulia Tramontano, 29 anni, è stata uccisa dal partner coetaneo dal quale aspettava un figlio. Già padre di un bambino avuto da una precedente relazione, l’uomo, manipolatore cronico ma senza precedenti di violenza fisica, si è sentito con le spalle al muro perché la sua storia parallela con una collega più giovane (a sua volta rimasta incinta e da lui convinta ad abortire) era venuta a galla. Per uscirne, ha accoltellato la ragazza con la quale viveva da anni e per giorni ne ha conservato il cadavere prima in casa, poi in auto, cercando istruzioni su Internet su come bruciarlo e occultare i resti. Sembra una storia da Grand Guignol, invece è cronaca. Del 2023.
Gli uomini perbene si indignano, ma nel loro sdegno – della cui sincerità non dubito – si celano un’autoassoluzione e una rimozione. Si cullano infatti nella certezza che mai potrebbero compiere simili atrocità, come del resto i loro amici e parenti. Però gli autori dei “femminicidi” in molti casi sono descritti come persone normali, al di sopra di ogni sospetto. E non vivono in un deserto sociale: hanno padri, colleghi, compagni di calcetto. Al contempo, preferiscono, gli uomini perbene, non pensare che le loro donne-madonne (madri, mogli, figlie) hanno subito, con poche eccezioni, quei comportamenti maschili che rappresentano il substrato quotidiano dell’orrore estremo. Le statistiche, non solo italiane, certificano ciò che molte di noi hanno sperimentato: palpeggiamenti, apprezzamenti volgari, insulti (fondamentalmente due, sinonimi, ché il vocabolario maschile è limitato); a scuola, sui mezzi pubblici, per strada, al lavoro. A prescindere dalle caratteristiche individuali della donna (“gnocca” o “cesso”, con annessa ricognizione sugli attributi), c’è sempre un uomo che si crede legittimato ad apporre su di lei il suo imprimatur, benevolo o malevolo che sia. Del resto, lo stupro (compreso quello di guerra) non è che il coronamento brutale di questa reificazione: che la donna abbia 15 anni o 80, non c’è scampo; agli occhi dell’uomo-cacciatore è solo un pezzo di carne da sottomettere e marchiare.
La quotidianità delle donne è fatta, oltre che di molestie fisiche e verbali, di ricatti, impliciti o espliciti, non solo nel frivolo mondo del cinema o nella fabbrica con scarsa presenza sindacale, ma anche in contesti perbene come studi professionali o Università, dove si può supporre che per uno scandalo sessuale che viene alla luce vi siano numerosi comportamenti impropri rimasti nell’ombra. D’altra parte, che la cultura non sia sinonimo di superiorità morale la storia lo ha ampiamente dimostrato. Immemori di tutto ciò, gli uomini ammodo si chiedono come sia possibile che una donna impieghi anni a denunciare (o rinunci a farlo), palesando così un deficit di intelligenza emotiva e insieme una scarsa consapevolezza dei processi di stigmatizzazione: non capiscono quale ferita imprima una molestia o un ricatto, quanto sia difficile parlarne, come ci si senta sole, a volte “sporche”. Accanto ai veri e propri abusi, vi sono, nella normalità, infiniti modi, più sottili, di ribadire le gerarchie. Qui davvero pochi si salvano. Una persona che si fa valere ha un forte temperamento, se uomo, se donna è un’isterica, oppure – a seconda dell’età – avrà le sue cose o sarà in menopausa. Già, perché è risaputo che le donne, e solo loro, sono continuamente in balia degli ormoni. Una donna disoccupata deve consolarsi pensando che il valore di una persona non si misura dal lavoro che fa (potendo del resto, la donna, tenersi impegnata con attività domestiche); un uomo escluso dal mercato del lavoro è compatito per il mancato riconoscimento economico e sociale. Un bel dualismo cartesiano, non c’è che dire: materia (donna) vs spirito (uomo).
Non vi è nulla di originale in ciò che ho scritto; si tratta di osservazioni fatte centinaia di volte. Ma evidentemente a nulla sono valse, e tocca ribadirle ancora e ancora, con la sensazione di essere intrappolate in un eterno giorno della marmotta. D’altronde, della capillarità e del radicamento del sistema patriarcale nella vita quotidiana trovo scarse tracce nella sinistra cosiddetta radicale, di cui sono simpatizzante, a tratti militante. I singoli esponenti così come le organizzazioni culturali, sindacali e politiche che la compongono nominano spesso l’approccio intersezionale (adottato in Italia con un ritardo di circa vent’anni rispetto ai paesi anglosassoni). Dimenticano tuttavia che, nelle intenzioni delle femministe afroamericane alle quali dobbiamo questo paradigma dirompente, la consapevolezza della concatenazione fra diverse forme di dominio (di classe, di genere ed etnico) non deve essere un mero proclama ideologico, bensì una bussola per smascherare l’oppressione insita nelle pratiche quotidiane – e destrutturarla. Invece a sinistra si fa fatica perfino ad accettare il linguaggio inclusivo, liquidato da alcuni quale vezzo radical chic: come se il rovesciamento dei rapporti di subordinazione non passasse anche per la battaglia culturale. Peraltro, è lecito il sospetto che per alcuni l’adozione della schwa funga da patentino che li esonera dall’interrogarsi sulla propria introiezione del sistema patriarcale.
L’impressione è che molti compagni si ostinino a pensare che lo sfruttamento vada affrontato essenzialmente sul piano economico: una battaglia sacrosanta, ma la storia insegna che non è sufficiente; che, purtroppo, neanche l’avvento del socialismo (non imminente, per inciso) garantisce la liberazione delle donne.
Ne erano ben consapevoli le ragazze attive nei gruppi rivoluzionari degli anni Settanta (non per niente molte se ne andarono), e, più a ritroso, la bolscevica Alexandra Kollontaj, prima donna a ricoprire la carica di ministra (e poi di ambasciatrice) e tuttavia schernita perché inesperta, emotiva, o amante di. Nonostante gli spazi che le donne si sono prese, a distanza di un secolo può ancora capitare, in ambienti di sinistra, che a studiose sia giovani che mature, con titoli e CV di tutto rispetto, ci si rivolga con l’appellativo di “signora”, mentre i colleghi maschi sono ovviamente qualificati come dottori o professori: forse vuole essere una galanteria (?), di fatto è una discriminazione. O che sul palco vi sia una sola donna, non di rado circondata da maschi alfa molto più vecchi e “autorevoli”, dunque (auto)legittimati a elargire il proprio bonario paternalismo: ciò che oggi si chiama, con ennesimo anglismo, mansplaining. È difficile in alcuni campi trovare delle esperte? Forse perché la composizione della comunità scientifica vede la percentuale di donne scendere a mano a mano che si sale nella gerarchia. Una situazione che dovrebbe spingere la sinistra a una critica radicale, appunto, dei fondamenti stessi della conoscenza tout court.
Lo sapevamo tutte, e dall’inizio, che cos’era successo a Giulia; lo sappiamo ogni volta che una donna scompare o viene ritrovata morta. Perché le donne sono confinate in un perenne stato di minorità: in condizioni “normali”, è sufficiente consacrarlo quotidianamente con pratiche sociali discriminatorie, ma nel momento in cui Rossella o Martina o Teresa o Giuseppina (per ricordare alcune delle vittime) diventano un ostacolo o rivendicano dignità e autonomia, allora tra gli uomini qualcuno, considerato magari fino al giorno prima irreprensibile, può decidere di dispiegarne tutta la potenza distruttiva. Rifiutarsi di riconoscere le mille forme di svalutazione e asservimento della soggettività delle donne e addossare l’Orrore al mostro di turno, così da preservare una normalità aberrante, non salverà la prossima Giulia. È ora che gli uomini perbene capiscano che è una questione – possiamo ben dirlo – di vita o di morte.