Ricordare don Milani nei giorni del centenario della sua nascita (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2023/05/26/don-lorenzo-milani-il-prete-che-ha-cambiato-la-societa-civile/) è essenziale, con riferimento alla scuola e all’educazione in generale, per almeno due motivi. Primo, perché nel mondo sempre più complesso e indecifrabile nel quale viviamo, resta ancora valida la lezione del sacerdote di Barbiana: ovvero la lezione dell’inclusività e dell’accoglienza, intese come principi ineliminabili di una scuola pubblica e democratica che voglia e debba fornire l’istruzione a tutti, nessuno escluso. Secondo, perché l’uomo Lorenzo Milani ha insegnato più di tutto che la lingua è oggi strumento di rivendicazione sociale, di denuncia delle ingiustizie economiche, di consapevolezza dell’importanza della propria identità, qualunque essa sia, e che l’uso della parola è soprattutto manifestazione irrinunciabile dei propri diritti, per i quali lottare ogni giorno e non stare zitti mai. Ed è la cosa che io, da insegnante erede del pensiero di Barbiana, cerco sempre di trasmettere ai miei allievi. Questi ultimi, a loro volta, sono gli eredi di quegli studenti che, nel racconto di Lettera a una professoressa, «consideravano il gioco e le vacanze un diritto, la scuola un sacrificio. Non avevano mai sentito dire che a scuola si va per imparare e che andarci è un privilegio».
Dunque il vero “merito” della scuola di ieri e di oggi non è tanto valorizzare il profitto in linea con quello degli altri apprendenti ma valorizzare ciascuno muovendo dal punto di partenza in cui lo hanno collocato il caso, o la vita, non certo un criterio meritocratico da lui del tutto avulso. «Sandro aveva 15 anni. Alto un metro e settanta, umiliato, adulto. I professori l’avevano giudicato un cretino. Volevano che ripetesse la prima per la terza volta. Gianni aveva 14 anni. Svagato, allergico di natura. I professori l’avevano sentenziato un delinquente. E non avevano tutti i torti, ma non è un motivo per levarselo di torno». Quando la meritocrazia non debella il classismo ma lo alimenta, perpetuandolo, non è più meritocrazia: è solo ingiustizia. L’unica vera forma di democrazia scolastica è quella che coincide con l’inclusione di ogni forma di diversità e che collima con la proporzionalità del diritto all’insegnamento, nel nome di un’equità sostanziale. Sostanziale, poi, nel senso di un giusto supporto cognitivo ed emotivo destinato a qualsiasi studente.
Anche da questo punto di vista è doveroso, in quest’ottica “milaniana“, attribuire il giusto peso sia a un’istruzione metropolitana, cioè legata ai grandi centri urbani, sia a un’istruzione provinciale, diffusa tra periferie, sobborghi e i tanti paesi del nostro territorio. Perché anche in questo caso una trasversalità di trattamento, che non tenga conto delle innumerevoli sfaccettature geografiche della scuola italiana, equivarrebbe a una condizione di trattamento di “parti uguali tra disuguali”. Ragion per cui il grado di civiltà di una società moderna si misura anche dai tipi di scuole e servizi offerti nei centri periferici, dove vive – e, mi permetto di dire, resiste – un’umanità preziosa, da custodire come uno scrigno prezioso. Non a caso Lorenzo Milani si trovava a Barbiana, piccola frazione di Vicchio, paese a nord-est di Firenze, quando incominciò quella straordinaria esperienza raccontata in Lettera a una professoressa: «Così è stato il nostro primo incontro con voi. Attraverso i ragazzi che non volete. L’abbiamo visto anche noi che con loro la scuola diventa più difficile. Qualche volta viene la tentazione di levarseli di torno. Ma se si perde loro, la scuola non è più scuola. È un ospedale che cura i sani e respinge i malati. Diventa uno strumento di differenziazione sempre più irrimediabile. E voi ve la sentite di fare questa parte nel mondo? Allora richiamateli, insistete, ricominciate tutto da capo all’infinito a costo di passar da pazzi. Meglio passar da pazzi che essere strumento di razzismo».