1. Il pacifismo ha radici che si perdono nella notte dei tempi (come la guerra, peraltro). È di 3400 anni fa, all’incirca, il regno del Faraone Amenofi IV, in Egitto, durante il quale furono bandite le guerre e le campagne militari (e probabilmente anche la pena di morte). Otto secoli dopo, in un’altra parte del mondo (ai piedi dell’Himalaya), il principe Siddhartha Gautama, detto il Buddha (l’Illuminato o il Risvegliato) scelse una pratica di pacifismo assoluto. Un suo seguace, il re dell’India Ashoka, fondò il suo regno, per quasi mezzo secolo, sul principio intransigente della non violenza. Certo, furono esperienze brevi, collocate all’interno di realtà che si basavano fondamentalmente sulla guerra e sulla violenza, ma ci furono.
I Romani, di lì a poco, alla conquista di un impero immenso, coniarono la massima, rimasta fino ai nostri giorni come espressione di saggezza, «si vis pacem, para bellum» (se vuoi la pace, prepara la guerra), intendendo la pace come la definì Tacito: «Hanno fatto un deserto e l’hanno chiamato pace». È però all’interno di quel mondo imperiale romano, le cui insegne, e le cui leggi, avanzavano al passo cadenzato delle legioni, che nacquero il rifiuto radicale di combattere i propri simili da parte dei cristiani delle origini e i primi obiettori di coscienza (disposti ad affrontare il martirio piuttosto che imbracciare le armi). Le parole e gli atti di Gesù al riguardo erano stati molto chiari: egli, infatti, aveva detto che bisognava «porgere l’altra guancia se qualcuno ti schiaffeggia» e aveva fatto riporre la spada nel fodero al discepolo che intendeva difenderlo dai soldati giunti nell’orto dei Getsemani per arrestarlo. Tutto ciò non avrebbe impedito, successivamente, ai cristiani che detenevano il potere (re, principi, nobili, vescovi e vescovi-conti) di compiere numerose imprese belliche nel nome di Cristo (di indire, fra l’altro, le Crociate, con le morti e le distruzioni che ne seguirono, con il pretesto di liberare dal dominio degli “Infedeli” il suo Sepolcro, in quella Palestina, che fu denominata Terra Santa). Ma, sempre nell’alveo del Cristianesimo, si avranno, nel corso dei secoli, alcune esperienze, rivoluzionarie proprio perché pacifiste in modo coerente e intransigente: prima fra tutte quella, al limite dell’eresia, di Francesco d’Assisi. In seguito vi saranno altre esperienze pienamente eretiche (i Catari, i seguaci di Fra’ Dolcino, i Valdesi, e, nell’ambito della Riforma Protestante, la Società degli Amici, fondata in Inghilterra e poi in esilio in America i cui membri, denominati spregiativamente Quaccheri [“coloro che tremano”], si manterranno convinti pacifisti). E saranno proprio gli “Amici Quaccheri” ad affermare solennemente: «Noi ripudiamo energicamente tutte le guerre e tutte le lotte e ogni combattimento con armi materiali, quale che ne sia lo scopo e quale il pretesto: […] e sappiamo che lo spirito di Cristo non ci ispirerà di prender parte ai combattimenti ed alle guerre, contro chicchessia, né per il regno di Cristo, né per i regni di questo mondo».
Anche artisti e filosofi, nel corso dei secoli, sostennero le ragioni dell’umana convivenza e della pace. Si possono citare, a titolo d’esempio e limitandosi al mondo occidentale: i greci Sofocle (con la tragedia Antigone) e Aristofane (con le commedie Lisistrata e La pace), l’umanista Erasmo da Rotterdam («La guerra cambia gli uomini in bestie feroci. […] Io non esorto e non prego: imploro. Cercate la pace»), Voltaire, nel 1700 («La cosa più straordinaria di questa impresa infernale è che ciascuno di quei capi di assassini fa benedire le proprie bandiere e invoca solennemente Dio prima di andare a sterminare il suo prossimo»), Condorcet (Quadro storico dei progressi dello spirito umano), Kant (Per la pace perpetua). Mentre la cultura degli illuministi fu la prima, in epoca moderna, a essere pacifista senza riserve, Per la pace perpetua di Kant fu il primo scritto organico che fa della pace il fine principale del corso storico dell’umanità.
2. Nel XIX secolo entrò in scena il movimento operaio e socialista. Aveva radici solidaristiche, cooperative, alternative al mondo del potere, della concorrenza, del profitto, in altre parole non violente. E aveva, nei suoi geni originari, il rifiuto della guerra, nella quale i proletari di nazioni diverse, in nome della patria, si uccidono a vicenda: «Nostra patria è il mondo intero» cantavano gli anarchici negli Stornelli d’esilio di Pietro Gori e L’internazionale era l’inno dei socialisti. Ma si fece strada anche, assai forte e infine prevalente, sulla base di una lettura parziale di Marx, l’idea che una nuova società si possa costruire solo dopo aver preso il potere, e averlo difeso, con la forza, come dimostrato, da un lato, dalla Comune di Parigi (che aveva dato “l’assalto al cielo” e che il nemico borghese aveva annientato nel sangue perché i comunardi erano inferiori nei mezzi militari) e, dall’altro, dalla rivoluzione d’ottobre in Russia (dove i Bolscevichi, organizzati e in armi, erano riusciti a conquistare il “Palazzo d’Inverno” e a mantenerne poi il possesso, anche con mezzi coercitivi e repressivi).
In Italia, nel 1915, i socialisti e anche i cattolici – quelli che poi avrebbero dato vita al Partito Popolare – furono contrari all’entrata in guerra. Ma poi, pian piano, a conflitto in atto, la parola d’ordine del Partito Socialista divenne «né aderire né sabotare» (in altri Paesi europei i parlamentari socialisti, in nome dell’unità nazionale, e in barba all’internazionalismo, avevano già votato a favore dei “crediti di guerra”). E la voce del Papa, che nel 1917 definì la guerra in corso «un’inutile strage», risultò piuttosto isolata nello stesso mondo cattolico (trovando eco, piuttosto, nelle parole di Rosa Luxemburg, socialista e rivoluzionaria, in carcere in Germania perché contraria alla guerra). La retorica della morte gloriosa in nome della Patria – «chi per la patria muor, vissuto è assai» – dilagava, frattanto, nei giornali, nei libri, nella musica, nelle canzoni, nei film (erano muti, ma le parole, “dannunzianamente” guerriere, risaltavano nelle scritte fra un fotogramma e l’altro). Solo in alcuni canti popolari – come Oh! Gorizia tu sei maledetta (che si contrapponeva alla visione “eroicamente” lirica di poemi come La sagra di Santa Gorizia di Vittorio Locchi) – si ebbe un’eco del dolore e delle sofferenze provocate dalla sanguinosa guerra di posizione (decine di migliaia di morti per conquistare pochi metri di terreno) e dalla vita di trincea, nonché del sano buon senso di chi continuava a non capire perché ci si dovesse uccidere a vicenda fra persone che non si conoscevano nemmeno e che, nella stragrande maggioranza dei casi, conducevano la medesima esistenza da “poveri cristi” sfruttati.
Dalla vicenda bellica, che aveva prodotto milioni di morti, di feriti, di invalidi (per lo più fra i combattenti – e sarà l’ultima volta: nei conflitti successivi sarà, sempre di più, la popolazione civile a rimanere vittima dei bombardamenti, delle rappresaglie, delle stragi –), nacque una letteratura di rifiuto della guerra in nome dell’umanità e del sentirsi fratelli al di là delle frontiere. Già nel 1924 l’anarchico e pacifista tedesco Ernst Friedrich mostrò in un libro fotografico (Guerra alla guerra) gli orrori del primo conflitto mondiale. Poco tempo dopo – nel 1929 – uscì, e riscosse un notevole successo, il romanzo Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque (di cui furono poi realizzate alcune versioni filmiche).
I tentativi di tradurre in politiche nuove l’insegnamento che veniva dalle atrocità della guerra (ad esempio, con la Società delle Nazioni proposta dal Presidente statunitense Wilson) non ebbero basi solide e non andarono molto lontano. Tanto è vero che ben presto si crearono le premesse per un secondo, e ancor più tremendo, conflitto mondiale. Nel frattempo, però, in altre zone del mondo, e cioè in India, ancora parte dell’impero britannico, si stavano sviluppando a livello di massa, sotto la guida del Mahatma Gandhi, delle esperienze di lotta non violenta che avrebbero portato la nazione indiana all’indipendenza. Gandhi, nella sua formazione, era stato influenzato dal pacifismo assoluto a cui era giunto, nei suoi ultimi anni di vita, il grande scrittore russo Leone Tolstoi (che aveva, a sua volta, subito l’influenza delle esperienze “comunitaristiche” avviate, e poi fallite, negli Stati Uniti, nella seconda metà dell’ottocento, ad opera dei membri di quel club trascendentalista che aveva avuto in Henry David Thoureau, l’autore del saggio La disubbidienza civile, il suo principale esponente).
3. Pacifismo e non violenza, spesso intrecciati fra loro, rispuntano, quindi, come un fiume carsico, in periodi e luoghi diversi, con caratteristiche assai diversificate, ma anche con alcuni tratti comuni. Si tratta, di volta in volta, di testimonianze singole, di opere di scrittori e artisti (che esercitano una grande influenza a livello di opinione pubblica), di lotte di madri e di spose (che si sdraiano anche sui binari per impedire che il treno porti via, a combattere, i loro figli e mariti), di scioperi e di azioni di massa che ripropongono la solidarietà operaia e proletaria al di là di ogni frontiera, di interventi animati da una profonda religiosità, di iniziative umanitarie che cercano di alleviare le sofferenze nel mezzo dei conflitti, di forme di disubbidienza e di resistenza passiva che tentano di ostacolare il passo agli armamenti, di movimenti – di scienziati, di intellettuali, di persone comuni – che sostengono la via del disarmo e della convivenza pacifica, di reazioni spontanee agli orrori della guerra. Si hanno canti, saggi, opere di letteratura, di teatro, di cinema, di altre arti visive, che hanno nel pacifismo la loro principale fonte di ispirazione e che si contrappongono alle produzioni che esaltano i valori e gli orgogli nazionalistici, patriottici, militari, i furori guerreschi, gli “eroi” delle imprese belliche. Dell’arte e degli artisti pacifisti sono simboli riconosciuti a livello mondiale Pablo Picasso, con la sua “colomba della pace” e con Guernica, e Bertolt Brecht, con numerose poesie contro la guerra e con il detto «Beato il paese che non ha bisogno di eroi». È un inno alla pace anche l’orazione finale del film Il grande dittatore, del 1940, dove Charlie Chaplin impersona sia Adenoid Hynkel, modellato su Adolf Hitler, sia un piccolo barbiere ebreo che gli assomiglia e che, per una serie di circostanze fortuite, ne prende il posto, pronunciando, appunto, il discorso umanitario conclusivo.
Va sottolineato che la nonviolenza come fattore attivo di trasformazione (e non rassegnata accettazione dell’esistente) ha avuto un suo spazio anche durante il grande movimento europeo di Resistenza al nazifascismo (un movimento che pure fu in gran parte lotta armata). Si possono citare in proposito gli episodi avvenuti in Danimarca (dove si riuscì, con un ampio coinvolgimento della popolazione, durante l’occupazione tedesca, a mettere in salvo, con il trasferimento nella vicina Svezia, non occupata, gran parte degli ebrei residenti e dove, a Copenaghen, tutti i commercianti misero nei propri negozi il simbolo imposto ai negozianti ebrei) e in Norvegia (dove gli insegnanti si rifiutarono in blocco di usare i testi che i nazisti avevano ordinato di adottare sino a che, alla fine, gli occupanti fecero marcia indietro rispetto a tale ingiunzione). Ma anche gli scioperi operai del 1943 in Italia (nel territorio della cosiddetta Repubblica di Salò), il sostegno popolare ai prigionieri fuggiti dai campi di concentramento, l’appoggio dato a ebree ed ebrei per impedire che fossero catturati e deportati nei lager, si inseriscono in tale filone. E l’azione armata dei gruppi partigiani fu resa possibile dal cibo fornito loro dai contadini, dal fatto cioè che le bande sui monti erano l’espressione combattente di un sentimento diffuso di ostilità ai nazi-fascisti: tale sentimento si manifestò con modalità diverse, anche, fra l’altro, attraverso la diffusione di una stampa clandestina con cui si incitava alla lotta e si proponeva una società del tutto diversa. Un esempio significativo di tale tipo di resistenza lo troviamo rappresentato poeticamente in un libro francese, Il silenzio del mare di Vercors, diffuso, su direttiva di De Gaulle, nella Francia occupata: un anziano signore e la sua giovane nipote, costretti a ospitare un ufficiale tedesco, si rifiutano per mesi di rivolgergli la parola; nonostante tutti i suoi sforzi di attaccare discorso, parlando di musica, di arte, di letteratura, delle bellezze della Francia essi si oppongono all’invasore con il muro del silenzio.
Posizioni e movimenti diversi. Per lo più minoritari. E, tuttavia, una storia radicata nei secoli e nei millenni.
L’articolo è il primo di tre scritti sul tema. Gli altri due seguiranno a breve