I concorrenti a qualsivoglia incarico o selezione non accettano i giudizi delle commissioni; i parenti del paziente che muore sotto i ferri, immediatamente fan causa ai medici (o addirittura li aggrediscono fisicamente) per la loro imperizia, al punto che si è sviluppata un vero e proprio ramo assicurativo, la “medicina difensiva”; chi perde una causa se la prende con l’avvocato che lo l’ha difeso; i genitori dei ragazzi bocciati a scuola mettono sotto accusa i docenti; chi perde un concorso universitario, immediatamente evoca una combine di “baroni”. E tutti, se possono, fanno ricorso al TAR, che spesso si mostra assai ben disposto a riconoscere le ragioni dei presunti maltrattati. Si assiste a un sempre più endemico diffondersi di comportamenti di questo tipo. In passato questo atteggiamento non era così diffuso. Cos’è cambiato, in cosa la società si è modificata per dare luogo a questa micro-conflittualità, serpeggiante e pervasiva?
Prendiamo un caso emblematico: una volta il paziente si affidava fiducioso alle cure del proprio medico, consapevole che questo avrebbe fatto tutto il possibile per curarlo. E quando entrava in ospedale, non pensava che il personale sanitario fosse lì riunito per mandarlo all’altro mondo, ma che agisse al meglio delle proprie possibilità, in scienza e coscienza, per rimetterlo in sesto. Certo, poteva scapparci il morto, l’operazione poteva andar male, l’imperscrutabilità del caso poteva metterci lo zampino. Ma ciò rientrava a pieno titolo nella contingenza delle cose umane, nella rugosità degli eventi, nella imprevedibile fatalità delle circostanze, nell’inevitabile margine di errore che è proprio di ogni cosa posta in atto dalla normale umanità, non dai marziani. A contare era la consapevolezza di aver ricevuto un’assistenza umana, di essere stati trattati non come portatori di un morbo da sconfiggere, ma come uomini di cui ci si prende cura nell’integralità del loro essere, avendo rispetto per i loro sentimenti e la loro personalità; con la presenza e l’affetto di una famiglia che può in qualche modo compartecipare alla cura e da medici che non vedono il “paziente” solo come un numero su una cartella clinica o una mucca da mungere, ma un umano sofferente nella totalità del suo essere. E anche la morte, in questo caso, non si accompagnava con quel senso di disperante solitudine di chi si vede abbandonato in un letto, in una camera dalle pareti bianche di un algido anche se efficiente ospedale.
Lo stesso avveniva nelle varie prove che si dovevano superare nel corso della vita (concorsi, esami, giudizi): si metteva in conto il raccomandato e il fatto che la commissione era fatta da persone che potevano azzeccare o sbagliare il giudizio, ma non sempre i bocciati pensavano di essere i più bravi ingiustamente scartati a favore di persone che erano tutte più asine di loro, così come oggi avviene di regola. Per lo più si era consapevoli di non avercela fatta, di aver sbagliato la prova, di essere stati impari al compito o semplicemente di essere stati sfortunati. E così avveniva a scuola: il bocciato non era la vittima di una sadica pratica educativa, di docenti cinici e ignoranti possibilmente da menare, ma era tale perché immeritevole, perché non aveva studiato; e le famiglie non davano la colpa ai docenti, ma al proprio figlio che si era poco applicato e magari lo prendevano a ceffoni affinché si mettesse sulla retta via.
Che oggi le cose non vadano più in tal modo è un sintomo di quel che potrebbe definirsi la progressiva disintegrazione del legame sociale, ovvero il decadimento della solidarietà tra le diverse parti che funzionalmente compongono la società. In ogni sistema complesso, in ogni società, v’è una interconnessione tale per cui ciascuna sua parte si “affida” al funzionamento dell’insieme. Si può dire che senza questa reciproca fiducia, senza questo solido e tacito collante, in condizioni normali mai messi in discussione, la vita sociale sarebbe semplicemente impossibile. In tale caso, per continuare nel nostro esempio, accade che il paziente abbia fiducia nel medico ritenendolo portatore di una conoscenza certificata da una università i cui i docenti hanno fatto il proprio meglio per trasmettergli le competenze necessarie a utilizzare le terapie migliori elaborate da ricercatori onesti e capaci in laboratori il cui scopo principale è la ricerca scientifica (e non l’essere al servizio di lobby farmaceutiche e mediche). Ma quando si viene a spezzare questo legame di fiducia, allora si diffida della conoscenza di cui il medico è garante, si nutre una profonda disistima dell’università che gli ha conferito il titolo e non si crede più che i ricercatori operino solo nell’interesse della scienza. Ed ecco allora il ricorso ai guaritori, alle medicine alternative, ai centri di cura eterodossi, la diffidenza per i vaccini e le prescrizioni farmaceutiche, ritenute indotte da Big-Pharma. Lo stesso avviene negli altri campi: il proprio ragazzo è bocciato? Sono i docenti ad essere incompetenti, e l’università che li ha formati non li ha saputi preparare, perché i suoi professori sono dei fannulloni dediti solo a ordire trame concorsuali. E così via.
Si viene così pian piano a logorare il reciproco inconsapevole “affidarsi”, che è al tempo stesso un complessivo avallo del sistema sociale, una garanzia per la sua stabilità e il suo mantenersi nel tempo; viene meno anche la fiducia nei processi di formazione, selezione del personale e valutazione messi in atto dall’organizzazione generale di uno stato, dalle sue istituzioni e dalle sue articolazioni territoriali. Ciascuno diffida del proprio prossimo e della qualifica, competenza, e moralità di cui è portatore; e alla prima occasione, appena in qualche modo ritiene di essere stato danneggiato, è pronto a fare ricorso all’autorità giudiziaria. E sempre più spesso v’è qualcuno che si ritiene danneggiato: lo sono per definizione tutti i bocciati, gli esclusi, gli emarginati. In questo clima ha una funzione di ulteriore disgregazione la martellante campagna di diffusione dell’odio sociale che si esprime continuamente in vari ambiti: residenti contro immigrati; immigrati di seconda generazione contro quelli appena arrivati; assegnatari di case popolari contro gli abusivi; cittadini stanziali contro zingari; regioni contro altre, persino juventini contro interisti.
Eppure tutto ciò non porta al conflitto aperto, alla crisi che poi è foriera di un riassetto del legame sociale su nuove basi, a una “lotta di classe” che permetta di ristabilire diversi equilibri. Non si genera un movimento politico che sia in grado di rifondare il legame sociale su nuove basi, possibilmente più eque o comunque rispondenti a una diversa visione della società. No, si ha piuttosto un suo progressivo deteriorarsi, lento, sterile, privo di prospettive, alla cui fine restano solo le macerie, la disaffezione, il disimpegno e infine l’astensionismo alle elezioni.
Non è la prima volta nella storia che accadono fenomeni simili; e ogni volta o la società ha ritrovato in sé la forza di rinsaldare il legame sociale su nuove basi, oppure è andata incontro a un processo di progressivo sfaldamento che non l’ha messa in grado di reggere le sfide del futuro. È stata la condizione tipica dell’impero romano nel periodo della sua decadenza, quando non bastava la moltiplicazione delle norme e dei regolamenti a rimettere in piedi un organismo in disfacimento; è stata la condizione dell’Ancien Régime, in Francia, come la degenerazione nella Russia zarista e poi in quella sovietica. Sembra anche la condizione dell’Europa d’oggi, nella quale un singolare ruolo di avanguardia sembra stia avendo proprio l’Italia. Non si può arrestare questa lenta slavina pensando di rattoppare qua e là un tessuto che si sfilaccia sempre di più, perché anche una ingegneria sociale “a spizzico” necessita di una direzione, di una meta che solo una visione complessiva della società, avente la capacità di stimolare le menti e di accendere i cuori, può fornire. È questo il ruolo dell’utopia, cioè quello – per riprendere le parole di un grande filosofo come Ernst Cassirer – «di crear spazio al possibile, contro ogni passiva acquiescenza allo stato presente». In fondo – affermava Oscar Wilde – «il progresso non è altro che l’avverarsi delle utopie».
Condivido in pieno, aggiungo solo che spesso alla sfiducia generalizzata verso il prossimo in carne e ossa (medico, insegnante, vicino di casa) si accompagna invece una grande ingenuità nel fidarsi di ogni imbonitore abbia accesso ai media, vecchi o nuovi che siano (e non solo in politica)
Voglio concentrarmi sulla società italiana: siamo il paese del “fotti e piangi” cosa dobbiamo aspettarci? Mi sembra che non si sia capito che la società è cambiata e che le dinamiche non siano più le stesse. Io non demordo ma, so che non avrò ne risposte ne vedrò cambiamenti. Non abbiamo più fiducia nei medici? Forse perché loro hanno messo in primo piano il tornaconto; non ho più fiducia nei professori? Perché non sanno che “cachio” non è una parolaccia ma una gemma fruttifera, non sanno che il caldo sta in alto ed il ferddo in basso, pensando al mare e alla montagna, dove LORO vanno in vacanza! Non credo di avere ancora molta voglia di sbattermi per questa società!
Il rischio di essere passatisti è dietro l’angolo, proprio quello che spesso svoltiamo di corsa senza neanche capirlo. Io intravvedo un altro rischio: quello di rifugiarsi nel legalismo. Si aspetta che i migranti si spiaggino da cadaveri per intervenire, perchè prima di allora non hanno lanciato sos? Basta che siano rispettate le regole e i protocolli. Arriva una pandemia e per pensare il da farsi… si pende da un “comitato tecnico scientifico” in cui il capitale (si dice stakeholders) conta ALMENO quanto la salute pubblica? E’ nelle prerogative di chi decide secondo le leggi. La “migliore” loro implementazione sono proprio gli ospedali fondati sui protocolli e sui bilanci. Normale che poi abbia ragione, chi non si fida e vede solo le lobbies: ci facciamo bastare che l’attività di lobby sia “regolamentata”. Ma se il grosso della politica vera è ridotta alla forma delle leggi, non ci sono elementi per tenere in vita l’organismo di una società organizzata. Dove si nasconde l’umanità, sotto tutte queste bombe?