Il grande business degli stadi di Roma e Milano

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È acclarato che il principale scopo dei tycoon stranieri che si affacciano nel calcio italiano, rilevando i pacchetti di maggioranza dei club, è la definizione del business. Costruendo un nuovo stadio di proprietà, svincolato dal pubblico, offrendo la garanzia non si sa quanto verificata, di varo di parcheggi, di nuovo verde pubblico.

Fortunatamente forme di resistenza e resilienza sono attivate contro queste forme di turbo-capitalismo sportivo. A Roma mal glien’è incolto a Pallotta, ritiratosi dopo il fallimento del progetto dello stadio giallorosso a Tor di Valle. Una fuga precipitosa dovuta più che alla protesta della società civile alle mosse della magistratura che hanno rivelato forti indizi di corruzione nelle manovre dell’imprenditore Parnasi opportunamente stoppato. Ora il nuovo proprietario, Friedkin, ci riprova, spostando l’asse logistico su Roma nord, epicentro Tiburtino. Il Comune di Roma, auspice Gualtieri, come già nella precedente occasione (sindaca era allora la Raggi) non ha fatto opposizione ma tre giorni fa finalmente la popolazione locale si è fatta viva con un massiccia manifestazione di protesta, denunciando la destinazione d’uso impropria di 58 ettari in una zona di Roma particolarmente convulsa per traffico e densità edilizia. È evidente a tutti che il nuovo stadio della Roma impatta traumaticamente su Pietralata. Otto comitati di residenti al Tiburtino sono scesi in piazza al grido di “Lo stadio fatelo a casa vostra”. Eloquente. Da notare che l’Olimpico attuale ha una capienza di 75.000 posti mentre il nuovo impianto sembrerebbe destinato a ospitare solo 50.000 persone.

Ad essere in discussione sono il diritto e la legittimazione della popolazione residente. Un po’ come per la Tav italo-francese. In Italia è lontano le mille miglia il modello della democrazia polisportiva partecipata spagnola e non c’è sentore di referendum per decidere la collocazione di un mostro del genere. Anche il niet verso le Olimpiadi Roma del 2024 è venuto dall’alto e non per decisione popolare.

Diversa la dialettica emersa per lo stadio di Milano. Inter e Milan sono stanche del Meazza che vorrebbero buttare giù. Il Meazza, o San Siro, è lo stadio in cui si vede meglio il calcio in Italia. È strano trovarsi alleati di Sgarbi con la sua opposizione alla cancellazione di un’opera storica, ma tant’è. Il sindaco di Milano Sala è fortemente orientato verso la nuova creatura. Che anche nella progettazione non trova pace ché Milan e Inter sono divise, perpetuando lo scisma romano (dove Lotito, per la Lazio, vorrebbe uno stadio tutto suo fuori dai confini dall’urbe, ma sempre vicino a Roma nord). In Lombardia sono addirittura tre le aree in ballottaggio per un progetto che profuma di speculazione edilizia. L’ubicazione di Sesto San Giovanni non riscuote progetti unanimi anche perché soffocherebbe la squadra locale (la Pro Sesto) e snaturerebbe la matrice meneghina del nuovo stadio.

Ma sia per Roma che per Milano dovrebbe valere una preoccupazione. Che fine faranno gli impianti dismessi? Roma non ha maturato la lezione del Flaminio che, abbandonato dal Sei Nazioni di rugby, è diventata una cattedrale nel deserto, bisognosa di 35 milioni di spese per il riattamento. Con un nuovo stadio della Roma (e della Lazio) anche l’Olimpico rischierebbe di fare la stessa miserevole fine. E questo retro pensiero dovrebbe appartenere al Comune e al Coni, magari compatti nel difendere l’esistente.

Gli autori

Daniele Poto

Daniele Poto, giornalista sportivo e scrittore, ha collaborato con “Tuttosport” e con diverse altre testate nazionali. Attualmente collabora con l’associazione Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie. Ha pubblicato, tra l’altro, Le mafie nel pallone (2011) e Azzardopoli 2.0. (2012).

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