Nella premessa al suo libro Un’Italia che scompare. Perché Ormea è un caso singolare? Fabio Balocco scrive che quando ripercorre la Val Tanaro da Ceva al Colle di Nava è attirato dalle indicazioni dei poveri borghi addossati «alla destra come alla sinistra orografica» e si immagina quanti abitanti ancora vi risiedano. Queste parole mi han fatto pensare a una riflessione di Nuto Revelli riportata nel suo Mondo dei vinti sommerso, perduto, quando descrive quei paesaggi divenuti incolti, finiti nell’abbandono: «Ormai il paesaggio lo leggo sempre e soltanto attraverso il filtro delle testimonianze. Sono le testimonianze che mi condizionano che mi impongono un confronto continuo tra il passato lontano e il presente. Attraverso quelle storie vedo il mosaico antico delle colture e dei colori anche dove è subentrato il gerbido, dove ha vinto la brughiera, vedo le borgate piene di gente e non in rovina, anche dove si è spenta la vita». Perché quei territori in abbandono li si riescono a leggere solo attraverso gli occhi di chi vi ha abitato, il disegno del lavoro impresso sui campi o sui sentieri dei pastori. Così è nel caso delle tante voci dei testimoni che Fabio Balocco raccoglie ad Ormea e nelle sue frazioni, uno dei Comuni che più hanno subito la piaga dello spopolamento.
Brevi cenni sulle sue origini perché non tutti sanno che il cuneese è stato a lungo area di saccheggio dei Saraceni insediati a Fraxinetum tra Provenza e Costa Azzurra. Tracce della loro presenza sono registrate fin dall’890 e rinvenute proprio nel territorio del Comune di Ormea nella torre del Castelletto (oggi rimangono solo le fondamenta) e nella caverna fortificata detta Balma del Messere a Cantarana, che infatti viene anche chiamata “Grotta dei Saraceni”. Solo a partire dal 1600 sorsero però le numerose frazioni di Ormea: fu da allora che gli abitanti si distribuirono lungo le pendici dei monti intorno al nucleo principale di fondovalle – racconta con dovizia l’autore – anche dove i declivi erano più impervi, grazie soprattutto a opere di terrazzamento in pietra a secco, come avveniva del resto nella confinante Liguria, arrivando anche ad altitudini di 1500-1600 metri sul livello del mare. Si formarono prima dei piccoli nuclei di poche abitazioni e poi vere e proprie frazioni: le famiglie richiedevano al vescovo di poter edificare la chiesa, il camposanto e di poter contare su un sacerdote per le funzioni religiose. Nel ‘700 a Ormea erano presenti 8 canonici, 22 preti celebranti e 5 chierici. Col tempo in quei piccoli centri abitati sorsero dei locali adiacenti la chiesa che potessero ospitare le lezioni per i bambini. E alla fine dell’800-inizio 900, la popolazione del Comune era distribuita equamente fra centro storico e frazioni. Secondo un percorso inverso certo è, invece, che lo spopolamento avviato nel secolo scorso riguardò quasi esclusivamente le frazioni di Ormea, non il capoluogo.
Ma veniamo alle testimonianze. Le condizioni della vita erano dure, unito anche al fatto della parcellizzazione dei terreni – racconta Giorgio Michelis – ognuno era proprietario di piccoli appezzamenti e anche sparpagliati: non c’era una grande proprietà che desse da vivere bene. Non tutte le frazioni erano proprio uguali. «Lo spopolamento di Chionea iniziò negli anni ’50 – ricorda un’altra testimone Odette Sappa –. La vita in montagna era dura, le famiglie avevano galline, qualche mucca e qualche capra, nei campi si coltivava grano e patate e nei boschi si raccoglievano le castagne che una volta secche si conservavano per un anno. La vendita di burro e uova veniva barattata con zucchero, sale e altri piccoli beni. Nei lunghi inverni, quando non si poteva lavorare nei campi, le persone più giovani andavano in Liguria o in Francia a raccogliere le olive o a tagliar legna sotto padrone, ma continuavano a risiedere in paese. Il grande esodo iniziò verso gli anni ‘60, quando le famiglie si spostarono per cercare lavoro in altri paesi. In particolare, in tanti si trasferirono a Monte Carlo per lavorare come spazzini». O alla Grascina (Aligi Michelis) quando «c’erano un tempo alcune persone che erano incaricate di venderne la carne, se era commestibile, alla comunità, e ognuno comprava la carne e pagava in base ai capi di bestiame che possedeva. Invece se moriva di malattia, la colletta veniva comunque fatta, ma ognuno pagava una quota inferiore. Questa operazione si chiamava appunto la “grascina”. Si era poveri, ma c’era un forte spirito di comunità. C’erano dei beni che venivano condivisi, tipo la stadera. E ogni abitante contribuiva a mantenere la mulattiera di accesso alla frazione o alla borgata. La “grascina” è terminata quando in una frazione rimasero solo più due famiglie. Era una specie di assicurazione o, meglio, un mutuo soccorso». Coi bambini che facevano i pastori fin da piccoli come Lidia Sappa che: «a otto anni andavo al pascolo dalla mattina alla sera. E c’era anche chi ci andava a quattro anni. Io mi portavo al pascolo delle fazze da mangiare e un pezzo di formaggio. Le fazze erano delle schiacciate fatte con farina, latte e bicarbonato di sodio come lievitante, che si cuocevano sul piano della stufa. Quando c’era la panna si aggiungeva all’impasto. Con questo pasto andavamo su fino quasi sul Pizzo d’Ormea su pascoli comunali. Per pascolare si pagava una tassa molto contenuta al Comune. Non avevamo il cane, come invece avevano altri. I temporali che mi sono presa lo so solo io. Un giorno tre della frazione vennero colpiti da un fulmine e si salvarono per miracolo. E c’erano alcuni che da Chionea salivano su fino quasi al Pizzo, verso le dieci mungevano, poi portavano giù il latte, risalivano dopo pranzo, mungevano di nuovo e scendevano alla sera».
Anche il paesaggio non è più lo stesso perché i tetti allora erano in paglia, in tutte le frazioni, salvo alcuni, pochissimi, che erano in “lose”. La paglia è stata usata (come in altre aree del Piemonte) fino a una cinquantina di anni fa. Ormea – va detto – come altre aree cadute in spopolamento è ai confini tra due regioni diverse, il Piemonte e la Liguria: ha una parlata tradizionale a sé, differente da quella dei paesi vicini, così come dal dialetto ligure e da quello piemontese. Gli studiosi della materia sostengono che derivi dalle parlate dell’ingauno (Albingaunum era l’antico nome di Albenga).
E ora? Accentuato spopolamento, chiusura dell’attività industriale che la caratterizzava (la cartiera), fallimento dello sci di pista, rarefazione dei turisti, perdita dell’identità culturale, conclude Balocco: un quadro non certo confortante se si confronta Ormea con il passato che ha conosciuto. Cosa si fa oggi per rivitalizzare Ormea? L’autore lo chiede direttamente al sindaco, Giorgio Ferraris. «Abbiamo avuto un passato importante, a partire dalla fine dell’Ottocento, grazie alla costruzione della ferrovia, che ha consentito una facile e comoda accessibilità turistica quando i territori montani di gran parte delle valli alpine erano quasi inaccessibili e l’insediamento industriale della Cartiera, che è stata per quasi un secolo la fonte principale di occupazione per la nostra Comunità. Con queste opportunità, che si sono create più di un secolo fa, la progressiva marginalizzazione e l’abbandono delle attività agricole sui versanti montani sono stati più rapidi e precoci rispetto ad altre vallate. La crisi della Cartiera è stata una vicenda lunga e tormentata, dalla metà degli anni ‘70, quando aveva ancora più di quattrocento dipendenti oltre ad un indotto significativo, fino alla definitiva chiusura del 2007, quando vi erano ancora un’ottantina di occupati». Contestualmente – continua il sindaco – «abbiamo registrato un aumento notevole dell’età media dei nostri concittadini, perché molti giovani sono emigrati alla ricerca di opportunità di lavoro che la nostra zona non offre. Questo sia a causa del progressivo ridimensionamento e poi della chiusura della Cartiera, che per l’aumento della scolarità, che ha comportato la necessità per molti giovani di trasferirsi in aree dove esistono possibilità di collocazioni professionali adeguate e coerenti con i titoli di studio conseguiti, inesistenti, o limitatissime, sul nostro territorio. Sono cambiate le motivazioni, ma la diminuzione della popolazione residente, inevitabilmente, continua e non si registrano, al momento, inversioni di tendenza».
Tra le realtà però significative di Ormea da valorizzare è la Scuola Forestale con ricadute importanti sul territorio sia per gli stimoli culturali che dà al territorio sia per la rilevanza economica della presenza di un numero significativo di insegnanti e di studenti. Gran parte degli studenti provengono da località del Piemonte e della Liguria che, per le distanze, non sono raggiungibili quotidianamente e sono quindi costretti a risiedere a Ormea, dove molti vivono in affitto in alloggi privati e quelli delle prime classi nel convitto annesso alla Scuola, che può ospitare fino a 70 ragazzi. Oltre a rappresentare un indotto economico, la Scuola costituisce una struttura di eccellenza, unica nel suo indirizzo nel Nord Ovest, che ha collegamenti e interazioni sia con Scienze Forestali della Facoltà di Agraria dell’Università di Torino, sia con tutti gli enti che, a livello nazionale e regionale, hanno competenze e interessi nel settore forestale e più generalmente nell’economia dei territori montani. Sono state intraprese alcune iniziative per incentivare una crescita del settore, come la creazione di un consorzio e la realizzazione di un impianto cittadino di teleriscaldamento alimentato a cippato di legna.
Mi soffermo su questo punto a riprova del fatto che declinare la scommessa del Ritorno in montagna (o della Restanza che è la stessa cosa) con la parola scuola è decisivo. A Paraloup per esempio, la borgata alpina della Valle Stura che proprio la Fondazione intitolata a Nuto Revelli ha recuperato è stata accolta, su iniziativa della stessa Facoltà di Agraria di Torino la prima Scuola del Ritorno o meglio Scuola per i giovani agricoltori di montagna (Sgam) sotto la direzione del prof. Andrea Cavallero specializzato proprio in Scienze forestali. Scuola di Ritorno allora? Sì, perché tanto l’esodo dalla montagna a Ormea (come nelle vallate alpine cuneesi che ha toccato a partire dagli anni Cinquanta tassi di spopolamento superiori al 70%) è stato caotico, sgovernato, tanto i processi di Ritorno, ripopolamento, complessi, legati alla specificità dei singoli territori vanno governati. Imparare a ritornare o a restare (quando tutti i luoghi cambiano in continuazione, secondo l’antropologo Vito Teti) vuol dire anche ricostruire un tessuto sociale, riproporre quelle neocomunità tutte da costruire (nella definizione di un altro antropologo Pietro Clemente) perché sono il prodotto, a differenza che nel passato, di una scelta di vita consapevole. Per chi ritorna ma anche per chi resta. Difendere i territori dallo spopolamento e dall’abbandono vuol dire racquistare una coscienza di luogo (uso la felice espressione degli amici Territorialisti di Alberto Magnaghi) perché i luoghi non sono indifferenti.
Non è una scommessa semplice il Ritorno in montagna, chiamato, com’è a sanare una caduta anzitutto culturale: perché è proprio il venir meno di un linguaggio proprio, il farsi raccontare dagli altri – dallo sguardo ieri dei cartografi degli Stati-nazione (e da ciò che io chiamo le “geografie negative” dei margini, le frontiere, i confini) oggi dei turisti o degli investitori – la premessa dello spopolamento, dell’abbandono di intere comunità. È importante allora, come fa Fabio Balocco, reinterrogare il patrimonio territoriale che abbiamo ereditato perché nella nostra fase opaca, disorientata, priva di direzione, possiamo “riconoscerci”. Riconoscere i nostri territori, è l’impegno crescente di molti di noi, imparare a reinventare un futuro che neanche quello è rimasto in piedi, legato com’è a un’idea un progresso che ha scompensato e violato l’ambiente naturale, lo stesso disegno del Paese, schiacciato com’è tra i “troppo pieni” delle città e delle coste e i “troppo vuoti” delle montagne (appenniniche e alpine) e delle aree interne. Come Ormea, con le sue frazioni svuotate, sta a dimostrare.