Siamo imbevuti di militarismo. E, senza accorgercene, stiamo umanizzando la guerra anziché escluderla dal nostro orizzonte culturale e politico. Basti pensare che siamo qui, stasera, per “trasgredire” a un divieto: per pronunciare la parola PACE senza infingimenti. È assurdo, è doloroso, percepire che la parola pace sia divenuta un discrimine, una parola divisiva, addirittura negativa. Una colpa da espiare per chi persegue la pace come obiettivo prioritario.
La cultura di guerra è dominante. E per chi non si adegua, per chi vi si oppone, scattano le liste di proscrizione a mezzo stampa. Come nel caso della compagna e amica Ida Dominijanni. Ogni critica è complicità con Putin, il tiranno del Cremlino… con il quale però fino all’altro ieri l’intero Occidente ha stretto accordi e suggellato intese. Mentre tanti dei moderni proscritti lo avversavano e ne denunciavano gli evidenti tratti deteriori.
Siamo passati dal manifesto di Ventotene, un testo fondante dell’Unione europea, all’urticante immagine di Roberta Mètsola – la più giovane presidente del Parlamento europeo, solitamente in formali e impeccabili tailleur – che si presenta a un incontro con Zelesky in informale e disinvolta maglietta verde militare…
Siamo immersi nel militarismo come sistema culturale, spesso latente, che pervade in modo subdolo e dissimulato le pratiche quotidiane nei mondi più disparati. Le immagini e i simboli hanno un ruolo fondamentale nei processi di formazione del pensiero, per le notevoli implicazioni culturali e politiche che esercitano, per il mondo di significati che costruiscono.
Siamo sommersi di militarismo e in ogni narrazione bellica che si rispetti, ci sono sempre gli eroi. Nella guerra ai tempi dei social, gli eroi si confezionano, si costruiscono con strumenti quasi hollywoodiani. È sempre più consueto imbattersi in video di soldati e soldatesse che ritornano a casa dopo mesi di assenza e che raccontano le reazioni gioiose dei loro cari, perfino dei loro animali domestici. Un fenomeno soprattutto americano. Militari che fanno ritorno a casa a sorpresa, e rigorosamente in mimetica. Sarà che detesto ogni forma di patriottismo militare, ma confesso che a me quei video non commuovono affatto, anzi mi inquietano. Non mi commuove la soldatessa che in tuta mimetica entra nella scuola elementare del figlio o il soldato che, sempre mimetica, entra in una sala travaglio per fare una sorpresa alla moglie in procinto di partorire. Questo plot narrativo vuole farci familiarizzare con la guerra. È un processo empatico che tenta in qualche modo di “umanizzarla”.
Pochi giorni fa ho “incontrato” il primo video del genere con protagonista un soldato ucraino che fa ritorno a casa e viene accolto dalle urla festanti della sua bambina. Un bellissimo quadretto familiare: l’uscio di casa, la bimbetta in maglietta rosa e le buste cariche di spesa poggiate a terra prima dell’abbraccio. Ma quello che stona è la presenza dell’immancabile tuta mimetica. Quotidianità e mimetica. Normalità e mimetica. Non è un padre che torna a casa dalla figlia: è, prima di tutto, un soldato.
La guerra è tornata ad essere considerata come metafora di valore e si impone nel quotidiano. È in atto un fenomeno inquietante: la nostra società, la nostra vita quotidiana, il nostro modo di vedere il mondo sono intrisi di militarismo. Siamo allo sbando della ragione e dei sentimenti. L’orizzonte del baratro non è distante, ma non tutto è perduto. Se ci fosse anche una sola strada, per quanto stretta, impervia e faticosa vale la pena percorrerla. Si è ancora in tempo ad arginare questa ordinaria follia che ci circonda e tentare di farlo è un imperativo categorico.
Intervento letto all’iniziativa “Pace Proibita” promossa da Michele Santoro il 2 maggio 2022 a Roma