Il tredicesimo no. Borgese davanti al fascismo

image_pdfimage_print

Mala tempora currunt. E proprio per questo dobbiamo davvero ringraziare l’ANPI per essersi fatta promotrice di “Ci fu chi disse no” (https://www.anpi.it/articoli/2565/), ciclo di iniziative che si svolgeranno fino a dicembre nelle università italiane presso le quali insegnavano i pochissimi professori che nel 1931 rifiutarono di prestare giuramento al fascismo. Spiace però vedere che ne saranno ricordati sempre 12, perpetuando un canone numerico creato dal fascismo stesso per esporlo alla pubblica disapprovazione.

C’è invece un tredicesimo nome che il regime si sforzò in ogni modo di tenere fuori da quella lista, di una persona a cui si evitò per anni di porre la questione del giuramento «per non dargli il pretesto di assumere la veste di perseguitato politico», come scrisse a Mussolini il ministro dell’Educazione nazionale Francesco Ercoli. E alla fine, quando fu lui stesso ad “autodenunciarsi” alle autorità dello Stato e dell’Università, si riuscì comunque, con un cavillo burocratico, a licenziarlo, piuttosto che dare pubblicità alla cosa.

È proprio per sfuggire a questa congiura del silenzio imposta dai fascisti, così ben riuscita da essersi mantenuta fino a noi per i più (ma non per gli studiosi), che vogliamo qui ricordare Giuseppe Antonio Borgese, all’epoca titolare della cattedra di Estetica alla Statale di Milano. Borgese non era solo un accademico, godendo di una popolarità molto più vasta presso il grande pubblico come il più famoso critico letterario dell’epoca e come scrittore: un intellettuale di successo le cui lezioni universitarie erano anche un appuntamento di moda per la buona borghesia colta milanese. Ma non solo: Borgese era sempre stato anche un intellettuale militante. Interventista, si era arruolato volontario nella Prima guerra mondiale, per denunciarne poi l’orrore nel suo romanzo Rubè (1921), che nel descrivere la crisi della società post-bellica riesce già a prefigurare esplicitamente l’avvento dei totalitarismi. Direttore dell’Ufficio stampa del Governo dal 1917 e incaricato di missioni diplomatiche, si adoperò per la convivenza pacifica tra gli Stati che erano stati sudditi del dissolto impero austroungarico, sostenendo quindi la necessità della rinuncia italiana alla Dalmazia, in tempi in cui imperava la retorica dannunziana della “vittoria mutilata”. In dissenso con le posizioni del Corriere della Sera dove fino ad allora era stato anche editorialista di politica estera, venne quindi confinato nel recinto della critica letteraria.

Bollato come rinunciatario dai nazionalisti, divenne costante bersaglio dei Gruppi universitari fascisti (GUF): le sue lezioni si svolgevano in una sorta di stato d’assedio, quando le azioni di disturbo non sfociavano in vere e proprie scazzottate tra i fascisti e gli allievi di Borgese (tra i quali Guido Piovene). Anche per sfuggire a questa situazione, accettò il ruolo di visiting professor a Berkeley per l’anno accademico 1931-1932, schivando dunque per caso l’obbligo di giuramento, in quanto all’estero e quindi in aspettativa dall’insegnamento in Italia. Il permesso gli venne automaticamente rinnovato l’anno successivo, ancora senza nessuna sollecitazione all’obbligo di giuramento. Ma Borgese sentiva il disagio di questo limbo che lo metteva in una posizione falsa, giudicandolo una «condanna a un altro anno di mediocrità». Nel 1934 decise quindi di scrivere apertamente a Mussolini – col quale aveva avuto una conoscenza personale dagli anni della Prima guerra mondiale ‒ la sua posizione in un memoriale, che venne ignorato, mentre, al contrario, gli fu nuovamente rinnovato il permesso a insegnare in America. Borgese decise quindi di forzare la mano e consegnò il medesimo memoriale a Salvemini, perché lo pubblicasse sui Quaderni di Giustizia e Libertà. Contemporaneamente riscrisse a Mussolini e comunicò al rettore dell’Università di Milano il suo rifiuto a giurare, tagliandosi così tutti i ponti alle spalle. Nel suo diario, lo definì «il momento più bello, o il momento più alto della mia vita». Motivando questa scelta, scrisse a un suo allievo: «Io poi non desidero vergognarmi di essere chiamato maestro come Lei mi chiama; un maestro deve essere intero e deve portare tutta la sua vita al punto delle sue idee; o è meglio che cada». Era consapevole di compiere quello che definì “un suicidio”, perché sapeva benissimo che ciò avrebbe comportato la fine di qualunque collaborazione col Corriere, la perdita della pensione universitaria e la rescissione del contratto con Mondadori per la pubblicazione della sua opera omnia (tutte cose che puntualmente si verificarono). Infatti, a differenza degli altri professori che rifiutarono di giurare, posti in quiescenza con regolare pensione, Borgese venne dichiarato d’autorità dimissionario e quindi privato del diritto alla pensione grazie a un pretesto burocratico (l’assenza dal servizio per più di 10 giorni senza giustificato motivo).

Borgese si costruì quindi un’altra vita in America, diventando cittadino americano e sposandosi in seconde nozze con Elizabeth Mann, figlia del grande scrittore, anch’egli in esilio per motivi politici. In questa nuova vita ebbe parte importante il suo impegno antifascista, fondando insieme ad altri fuoriusciti del gruppo di Giustizia e Libertà la “Mazzini society” e scrivendo in inglese un libro che contribuì a spiegare il fascismo – definito “la malattia italiana” ‒ agli americani (e non solo): Goliath, the march of fascism (1937).

Oltre a quel “no” che il fascismo non voleva udire, molte altre parole scomode provennero dunque da quella voce, e riecheggiarono in tutto il mondo. Qualcuna di queste potrebbe essere utilmente ascoltata anche oggi, visto che secondo Borgese il fascismo è una malattia infantile, perenne però, visto l’infantilismo cronico degli italiani. E come dargli torto, anche ora, soprattutto ora, quando scrive «infantile è il loro modo di aggrapparsi alle gonne di mamma Autorità, di arrampicarsi sulle ginocchia di papà Conformismo»?

Per approfondire: S. Gerbi, Giuseppe Antonio Borgese politico, in Belfagor, 52 (1997), fasc. 1, pp. 43-69.

La fotografia nella homepage ritrae Borgese negli Stati Uniti con la seconda moglie Elisabeth, figlia dello scrittore Thomas Mann.

Gli autori

Francesca Marcellan

Francesca Marcellan vive a Padova, lavora presso il Ministero della Cultura e scrive di arte, soprattutto nei suoi aspetti iconologici. Sulla scorta di Morando Morandini, va al cinema "per essere invasa dai film, non per evadere grazie ai film". E quando queste invasioni sono particolarmente proficue, le condivide scrivendone.

Guarda gli altri post di:

2 Comments on “Il tredicesimo no. Borgese davanti al fascismo”

  1. Giusto ricordare Giuseppe Antonio Borgese. Ma forse bisognerebbe aggiungere tre piccole cose. Il suo saggio “Golia: marcia del fascismo”, per chi fosse interessato a leggerlo, esiste anche nella versione italiana. Secondo che forse la Repubblica nata dalla resistenza non ha saputo trovare per Borgese un ruolo all’altezza della sua storia, è morto nel 1952 , quando aveva solo 70 anni. Terzo: Leonardo Sciascia lo cita spesso nei suoi scritti.

  2. Segnalo l’uscita nel 2021 per l’editore Campanotto del volume di Stefano Magni “G.A. Borgese – Dal nazionalismo al federalismo”

Comments are closed.