Lo scorso 11 luglio tutti i media italiani hanno dato notizia dell’Angelus del Papa e del suo incentrarsi sui temi fondanti la politica sanitaria. Ma dopo la notizia nulla. Nessuna firma sui media e nessuna organizzazione politica e/o sindacale, a mia conoscenza, si è avventurata a commentare l’impatto possibile, in Italia, dei passaggi chiave di quell’Angelus. Questa volta è sui temi di politica sanitaria che il Papa è stato lasciato parlare senza essere degnato di riscontri formali e/o “pratici” da parte di chi la politica sanitaria pratica per ruolo istituzionale, politico o sociale, o discute per professione.
Chi scrive non è “parte della Chiesa” e ne contesta la pretesa di sostituirsi allo Stato nelle politiche di welfare sanitario e sociale. Ciò precisato non si può, però, non riconoscere a questo Papa la sfida valoriale e politica che propone alle società che si confrontano con la sua Chiesa e l’opportunità di raccoglierla. Nel caso della sanità, partendo dalla sua esperienza personale («In questi giorni di ricovero in ospedale, ho sperimentato ancora una volta…»), il Papa, infatti, ha sottolineato «quanto sia importante un buon servizio sanitario, accessibile a tutti» e contestualizzato ed esemplificato «come c’è in Italia e in altri Paesi», caricando di responsabilità, nei fatti, chi governa e chi concorre alla governabilità di detti paesi. E ne ha ribadito e arricchito le caratteristiche necessarie: «un servizio sanitario gratuito, che assicuri un buon servizio accessibile a tutti». Poi ha fatto un monito e un appello: «Non bisogna perdere questo bene prezioso. Bisogna mantenerlo!» e ha esortato: «Per questo occorre impegnarsi tutti, perché serve a tutti e chiede il contributo di tutti».
Quest’ultima esortazione chiama in causa direttamente non solo il corpo sociale (e intellettuale) della Chiesa, ma anche il Governo, e in particolare, in esso, la sinistra e l’area progressista (M5S). E anche quando le considerazioni del Papa sono rivolte specificamente ed esclusivamente all’apparato del Vaticano, i principi da lui richiamati costituiscono una sfida valoriale per quanti al Governo e nelle Regioni hanno la responsabilità politica e manageriale del Servizio sanitario pubblico: «anche nella Chiesa succede a volte che qualche istituzione sanitaria, per una non buona gestione, non va bene economicamente, e il primo pensiero che ci viene è venderla. Ma la vocazione, nella Chiesa, non è avere dei quattrini, è fare il servizio, e il servizio sempre è gratuito. Non dimenticatevi di questo: salvare le istituzioni gratuite». Se ciò vale per la Chiesa, infatti, a maggior ragione vale per il Servizio Sanitario Nazionale, la cui vocazione non è, come dice con gergo critico e popolare il Papa, “avere quattrini” – che nella versione applicabile al SSN equivarrebbe a “risparmiare quattrini/tagliare la spesa pubblica” (come il “venderla” equivale, per la sanità pubblica, al “tagliarla/chiuderla”) – ma assicurare prestazioni “gratuite”. Gratuità, beninteso, che fuori dagli schemi caritativi cattolici e nel contesto dei principi del welfare state va intesa non in assoluto ma al momento della erogazione dei servizi poiché, tramite la fiscalità generale (le tasse), “tutti” sarebbero chiamati a finanziarle in rapporto ai loro redditi, come evoca il Papa stesso con l’espressione il “contributo di tutti”, e come prevedono la Costituzione e la legge n. 833/1978 nel loro combinato disposto. Ciò avverrebbe in maniera opportuna e giusta se il sistema fiscale fosse progressivo e l’evasione e l’elusione fiscale efficacemente combattute, cosa che non è.
Non lasciar cadere le sfide che l’Angelus del Papa dello scorso luglio propone a quanti proclamano, nei rispettivi ruoli istituzionali e sociali, la centralità del Servizio sanitario pubblico e la necessità di adeguarlo nei suoi servizi territoriali (ma è necessario, in modo olistico, anche per ospedali e università) significa concretamente e prioritariamente:
– impegnarsi a reperire le risorse necessarie per colmare il gap determinato dalle richieste del PNRR di soli 18-19 miliardi dopo il definanziamento, a tecnologie e costi assistenziali “invariati” (!), generalmente indicato in oltre 37 miliardi di euro in era pre Covid-19 e avendo il Ministero della Salute (sotto) stimato in 65 miliardi di euro il fabbisogno di investimenti e spesa pubblica aggiuntiva per il potenziamento indispensabile del SSN nel prossimo quinquennio;
– soddisfare il crescente fabbisogno di personale, delle varie tipologie, necessario non solo a colmare le lacune (meno 45.000 unità tra il 2008 e il 2018!) a carico di ospedali e servizi pubblici ma a creare praticamente ex novo i servizi territoriali in tutte le regioni d’Italia (compresa l’Emilia-Romagna nella quale si promuove molto e si realizza assolutamente meno), smettendo di reclutarlo con contratti precari e a termine e remunerandolo non meno che nel resto dei paesi UE confrontabili;
– abbandonare la strada del numero programmato per l’accesso ai corsi universitari che i fatti Covid-19 hanno attestato totalmente fallita e fallimentare (perché basata sull’offerta di servizi didattici dalla austerity, tagliati a monte dei bisogni formativi e del mercato del lavoro) e ridisegnare, finanziandolo adeguatamente, il sistema formativo del SSN e dell’Università per rispondere ai crescenti bisogni di competenze che la medicina del terzo millennio esige e alle legittime aspettative di quanti anelano a una formazione universitaria nelle varie discipline utili alla tutela della salute;
– invertire lo squilibrio dimensionale, che va aggravandosi a danno della finanza e delle competenze pubbliche, tra Servizio sanitario nazionale e “settore erogativo privato”, a cominciare dall’intervento dello Stato nella crisi della spedalità privata vaticana che va risolta, incorporandola, previo acquisto, nel Servizio sanitario nazionale, a rinforzo dei servizi sanitari regionali pubblici, per esempio nel Lazio e in Puglia. Non è opportuno per la governabilità e la compatibilità economica di sistema lasciare che il settore privato si espanda oltre – secondo il Ministero economia e finanze nel 2019 circa 25 miliardi la spesa del SSN per prestazioni sociali (prestazioni specialistiche) da privato oltre ai circa 11 miliardi di spesa farmaceutica su 117,3 miliardi di spesa pubblica complessiva (cui va aggiunta la spesa sanitaria privata diretta per oltre 34 miliardi). È, infatti, un settore sempre meno governabile perché sempre più “finanziarizzato” e internazionalizzato, sia sul lato della produzione (cfr. il gruppo S. Donato, pretendente all’acquisto degli ospedali vaticani in dismissione) sia su quello del finanziamento (Assicurazioni di prima e seconda istanza, connesse con il sistema del welfare contrattuale e da connettersi con i fondi regionali, accessibili solo a chi può permetterseli, anelati dalle regioni Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna con le loro richieste di autonomia differenziata).
L’esperienza vaccini durante il Covid-19 non ha insegnato nulla? Sarebbe il caso che su questi nodi centrali si pronunciassero quanti governano e quanti concorrono alla governabilità, a cominciare “dalle anime e le forme” della sinistra e dalle firme dei media. Ne va della reversibilità, o meno, della crisi crescente del Servizio sanitario pubblico, denunciata in maniera allarmata e non casuale, seppur “a modo suo”, anche dal Papa.
A me parrebbe che proprio grazie alla Covid19 “le nuove sovranità senza più limiti o confini. Forze organizzate che si mostrano in grado di frantumare i diritti e disperdere i soggetti, operando tanto in ambito nazionale, quanto in quello globale” come scrive G.Azzariti nel suo recente “Diritto o barbarie” (p. 26) abbiano dimostrato cosa vogliano e come facciano ad esigerlo. “Poteri selvaggi” che si sono, qui da noi, impossessati fino ad ora di ben 4 mld e100 mln di euro per i loro vaccini anticovid-19 non ancora autorizzati. Soldi con i quali si potevano assumere in pianta stabile quei 45.000 fra infermieri e medici e curare a domicilio con gran successo come documenta nelle sue pubblicazioni, tra gli altri, il prof Remuzzi (insieme a migliaia di medici di medicina generale) dell’istituto Mario Negri, oltre ad aumentare l’accesso ai corsi di specialità.
Forse bisognerebbe avere più coraggio nel richiedere una medicina di qualità, pretendendo l’applicazione, senza se e senza ma, dalla legislazione esistente nel Ssn (ulss, aziende, case di cura private convenzionate) come la decina di leggi (tra cui ben tre Riforme) che affermano che con la impegnativa firmata dal M.M.G. si ha diritto alla scelto dello super-specialista adatto alla cura della propria patologia e che, per quella prestazione chiesta con l’impegnativa, i tempi d’attesa siano eguali ai tempi medi della stessa prestazione chiesta in intramoenia (legge 120/07 art 1 comma 4 lettera g). Parallelamente va fatta un battaglia per abolire la remunerazione a percentuale del DRG delle prestazioni sanitarie.
Condivido in toto che il nostro sistema sanitario non è un sistema gratuito ma un sistema prepagato perché così è più equo non dovendosi ricorrere al portafoglio nel momento del bisogno e perché è meno costoso: i sistemi mutualistici e assicurativi privati hanno costi amministrativi di gestione sul 27% a fronte del 7% di quelli pubblici.