Sono stato magistrato per oltre quarant’anni, dal gennaio 1970 al novembre 2010. All’atto del mio ingresso in magistratura erano in corso le indagini sulla strage di piazza Fontana e i relativi depistaggi; quando ho lasciato la toga si affacciavano le indagini sulla trattativa tra lo Stato e Cosa nostra connesse con l’omicidio di Paolo Borsellino e i relativi depistaggi. Nonostante queste coincidenze, sono stati anni in cui molto è cambiato nella giustizia e nella magistratura. E si è trattato di cambiamenti profondamente avvertiti dal Paese. Nei primi anni Settanta la sinistra guardava ai magistrati con diffidenza o con aperta ostilità; fiorivano i manuali di autodifesa per militanti incappati nelle maglie della giustizia; Luigi Pintor, sulle pagine de il manifesto, definiva i magistrati «mostri spesso ossuti e avvizziti, più spesso obesi e flaccidi, col viso marcato dalle nefandezze del loro mestiere» (così riprendendo una descrizione di Italo Calvino comparsa nel 1948 su Rinascita); Fabrizio De André cantava Il giudice e Il gorilla. Per converso la magistratura aveva il sostegno incondizionato della destra e delle varie “maggioranze silenziose”. Trent’anni dopo il quadro sembrava capovolto. La giustizia era tra i pochi temi capaci di unire una sinistra smarrita, divisa e priva di idee e ad attaccare giudici e pubblici ministeri, con un accanimento a dir poco inconsueto, erano la destra e suoi paladini. Oggi il quadro è nuovamente cambiato. I magistrati hanno scoperchiato santuari intoccabili e affermato diritti precedentemente privi di tutela ma nello stesso tempo (e talora insieme, in un intreccio perverso) ci sono state gravi cadute sul piano delle garanzie, assunzione di compiti impropri in particolare da parte di pubblici ministeri, riallineamenti con i forti a scapito dei deboli. Ciò non è rimasto senza conseguenze e alla perdurante ostilità delle destre si sono affiancati significativi scricchiolii nel consenso di aree culturali progressiste e finanche di ambienti radicali (che si erano un po’ innaturalmente accodati a una concezione della giustizia come veicolo di progresso e di democrazia). Poi è intervenuto, non senza avvisaglie irresponsabilmente trascurate, il ciclone Palamara, spia di un vuoto di ideali e di cultura di un ceto associativo che si concepisce come una cordata impegnata a distribuire favori e promozioni ai propri adepti e sgambetti agli avversari con una volgarità che non salva nemmeno le forme. Così sembra essere crollato un mito, c’è nei confronti dei magistrati (e del loro Consiglio superiore) una diffidenza bipartisan e sono in molti – non solo nella politica – a cogliere l’occasione per tentare di regolare conti aperti e riportare i giudici “sotto il trono”, minandone lo status di indipendenza e di soggezione soltanto alla legge. In parallelo nella maggioranza della magistratura è forte la sindrome della “cittadella assediata” che amplifica il corporativismo e l’incapacità di un dialogo con la società.
In questo quadro è difficile parlare di giustizia in modo razionale e pacato. Eppure qualcuno ci prova, e con buoni risultati. È il caso di Paolo Borgna e Jacopo Rosatelli (magistrato fino a pochi mesi fa e storico colto e appassionato il primo; giovane studioso di politica e di giustizia e collaboratore de il manifesto il secondo) ai quali si deve un libro agile e brillante dal significativo titolo Una fragile indipendenza. Conversazione intorno alla magistratura, recentemente pubblicato da Edizioni SEB 27. Estraneo alle velleità autocelebrative che spesso caratterizzano gli scritti di magistrati (assai più frequenti che utili), quello di Borgna e Rosatelli è un libro che ripercorre gli ultimi 50 anni della giustizia in modo onesto (perché affronta con schiettezza anche le vicende più amare), laico (perché non cede a logiche di corporazione) e razionalmente propositivo (con indicazioni attente a bilanciare i valori in gioco seppur talora – come inevitabile – discutibili). Non è poco, soprattutto se a ciò si aggiunge una buona dose di ironia, come quando smaschera la strumentalità e l’inconsistenza delle accuse di “politicizzazione” rivolte ai magistrati progressisti: «Bisogna sfatare un falso mito: Md non era la cinghia di trasmissione – come si diceva allora per il sindacato – del Pci. Molti lo pensano, ma non è mai stato così. Lo dico con una battuta: casomai, nella testa di qualche dirigente di Md il rapporto era rovesciato, il Pci doveva fare quello che diceva Md» (Borgna, p. 29)
Molti gli stimoli proposti da questa conversazione, vivacizzata dalle differenze di età, di competenze e di esperienze degli autori. Ne cito tre, ovviamente con una scelta personale e non esaustiva.
Primo. La stagione di Tangentopoli. Borgna e Rosatelli non hanno dubbi. È stata una stagione positiva e fondamentale, imposta da un sistema di corruzione capillare e sfrontata che attraversava gran parte della politica (e della imprenditoria). E grandi sono stati i meriti della magistratura e, in particolare, del pool della Procura di Milano. Ma è stata anche una stagione caratterizzata da molte forzature che hanno spianato la strada ad alcuni dei mali di cui soffre oggi la giustizia: una cultura attenta al risultato più che al rispetto rigoroso delle regole, un improprio rapporto diretto con la pubblica opinione (quasi stesse lì la fonte della legittimazione di giudici e pubblici ministeri), una diffusa insofferenza nei confronti della critica. È un’analisi lucida e puntuale. Se fosse più diffusa non assisteremmo agli “strappi di legalità” che attraversano il giudiziario dalle Alpi all’estremo Sud.
Secondo. La questione morale. Anche qui gli autori sono sostanzialmente d’accordo, almeno nel punto di partenza. Il sistema Palamara-Ferri tocca la magistratura nel profondo, e non si tratta delle classiche “mele marce” sempre evocate, nel nostro Paese, all’emergere di scandali e malcostume. È qualcosa di più profondo, segnalato con lungimiranza già 15 anni fa da Gustavo Zagrebelsky allorché denunciò «le catene verticali di potere, quasi sempre invisibili e talora segrete, che legano tra loro uomini della politica, delle burocrazie, della magistratura, delle professioni, delle gerarchie ecclesiastiche, dell’economia, della finanza, dell’università, della cultura, dello spettacolo, nell’innumerevole pletora di enti, consigli, centri, fondazioni che, secondo i propri princìpi, dovrebbero essere reciprocamente indipendenti e sono, invece, attratti negli stessi mulinelli del potere corruttivi di ruoli, competenze e responsabilità». Tale degrado professionale ed etico – a differenza di quanto superficialmente e interessatamente di dice – non può essere attribuito in modo indifferenziato alle “correnti”, cioè alle aggregazioni interne all’associazionismo giudiziario (non foss’altro perché, come la storia insegna, ad esse preesistente). Ma qui le analisi si dividono ché, mentre Borgna si dichiara convinto che il sistema giustizia non è rinnovabile dall’interno, Rosatelli sostiene la possibilità/necessità di una rigenerazione messa in campo dalle componenti più avvertite della corporazione in una prospettiva che rimanda al conflitto, da sempre in atto, tra due magistrature con profonde diversità di riferimenti e di valori (ma qui forse – come non si dovrebbe fare in una recensione – sovrappongo a quelle degli autori analisi e convinzioni in realtà mie, e dunque mi fermo).
Terzo. Che fare? Riformare, certamente (anche perché «sclerotizzando il sistema esistente, finiremmo per spianare la strada ai veri nemici dell’indipendenza»). Ma come? Le posizioni dei due autori non coincidono ché Borgna suggerisce modifiche profonde, anche di carattere costituzionale, a cominciare dalla composizione del Consiglio superiore della magistratura, mentre Rosatelli è, al riguardo assai più cauto e convinto che non possa essere l’ingegneria istituzionale a guarire una malattia che ha cause prima di tutto culturali e politiche. Discorso aperto, ovviamente, che richiede sintesi progressive ed è bene che resi tale purché il confronto sia vero e non strumentale (com’è nel libro e, purtroppo, assai meno nella realtà).
Complimenti, ottima analisi.