FRAGILE una volta non era di moda. La parola, intendo, non la pronunciava nessuno; eppure la si teneva da conto. La si leggeva in silenzio ‒ e non sui giornali: sui cartoni delle scatole o sulle casse da spedizione, a caratteri cubitali. La si intendeva, piccolo abbozzo di lingua universale, in italiano, in inglese, in francese, sempre uguale. Suscitava un sapere pratico, quasi istintivo: si sapeva che farne. Allertava i sensi, tendeva i muscoli delle mani. E in caso di dubbi era accompagnata comunque, in posizione più defilata, da istruzioni per l’uso che sapevano allora, come sanno ancor oggi, di monito: MANEGGIARE CON CURA.
Cosa contenesse la scatola-scrigno, se fini cristalli o comuni bicchieri da vino, non sempre era dato sapere: e poco contava. Sapevi, però, che senza la dovuta attenzione quel qualcosa non sarebbe più stato. E questo bastava. FRAGILE adesso è sulle bocche di molti e su tutti i giornali. Si è fatta categoria e si dice al plurale: ci sono I FRAGILI, oggi, e sono una categoria di persone. Non si sa bene che farne però ‒ forse perché non ci sono più le istruzioni ‒ e nemmeno si sa bene chi siano. Ma forse val la pena porci su mente.
FRAGILE, secondo il dizionario, è ciò che facilmente si rompe, specie se soggetto a urto. Certo bisognerebbe distinguere caso da caso, approfondire. Ma più di questo il dizionario non dice. Non dice di che tipo di oggetto o soggetto si tratti, se nuovo di zecca, se antico, se vecchio, non dice del valore e del prezzo, né di che forza e che sorta debba essere l’urto, perché si crepi o si rompa.
I FRAGILI, se oggi ci sono, è perché il virus li ha portati con sé. La parola, intendo, come nome di categoria, è stata inventata per dar conto degli effetti della pandemia e nel tentativo di porvi rimedio.
Ho sentito in televisione che i FRAGILI sono i “responsabili” del numero che a tutti fa orrore, il conto dei morti. Volevano dire che sono quelli che muoiono. Ma l’hanno mal detto: ché forse, io dico, oltre a non essere loro intenzione, d’essere morti non è nemmeno loro responsabilità. La colpa, io dico, è tutta di quelle istruzioni che c’erano e che sono andate perdute: FRAGILE – MANEGGIARE CON CURA. Se si sapesse maneggiare con cura ciò che si sa essere fragile, si eviterebbe che anch’esso vada perduto. E dunque, io dico, chiediamoci non solo chi siano i fragili ma anche che cosa significhi maneggiare con cura. «I care»: ormai dobbiamo dire in inglese ciò che in italiano conoscevamo già bene, che la cura prima di essere cosa da medici o di pubblica sanità è cosa di tutti: è “attenzione” e “responsabilità”, è interesse sollecito, pre-occuparsi per quel che abbiamo di fronte, tenere in conto le esigenze particolari di ognuno. Ché ogni cosa, anche se di fibra robusta e tenace, ha il suo punto magari nascosto di fatale rottura.
Ho visto tre fasi in questo anno e mezzo di pandemia. Il cinismo, la vicinanza, la rimozione. All’inizio ci hanno detto state tranquilli, se non siete vecchi o disabili o molto malati, non dovete temere: sono fragili, loro, sono loro a morire. Poi il lockdown, il confinamento forzato dentro le case, mentre da fuori il richiamo delle sirene ci legava con nodi ben saldi alle nostre paure. Ci stringeva, strano a dirsi in quella distanza mai così grande, anche tutti d’una vicinanza ancora più radicale. Quasi che il noi e il loro non servissero più. In vero, a quella inedita vicinanza, i fragili arrivavano avvantaggiati. Non che fossero a proprio agio nella situazione, tutt’altro, ma sapevano già. A loro era già familiare quel senso di diffusa vulnerabilità, non ne facevano allora prima esperienza. Conoscevano già l’isolamento e ‒ penso ai disabili, in molti più casi di quanto si creda ‒ persino la segregazione, la reclusione nelle case e negli istituti. Conoscevano già le limitazioni alla mobilità, la ridotta agibilità degli spazi e dei servizi. Conoscevano già lo spettro della solitudine, l’essere guardati con diffidenza e disagio, tenuti a distanza. Sapevano però anche, e si stupivano di chi lo andava scoprendo solo in quei giorni, che nessuno è autosufficiente davvero, che si dipende sempre, in varia misura ma in senso profondo, gli uni dagli altri.
Siamo stati molto vicini, dunque, noi FRAGILI e noialtri ‒ non vecchi, non disabili, non molto malati. Siamo stati vicini, ma non ne abbiamo tratto le conseguenze dovute. Può darsi che non ci siamo riconosciuti. O che abbiamo stornato lo sguardo: d’un tratto, come d’istinto, magari sgomenti. Poi abbiamo dimenticato. O piuttosto rimosso. Può fare paura vedersi negli altri come allo specchio e scoprire di essere fragili, tutti, diversamente, ognuno a suo modo. Le categorie ci proteggono, organizzano il mondo, danno ordine al caos, ma quasi sempre sono bugiarde. Averne coscienza però può essere utile. Ad esempio, per ripartire in modo nuovo davvero.
Un’altra parola è sulla bocca di tutti, agitata a bandiera, indicata a nuovo orizzonte. A me suona opaca e un po’ infida: è RESILIENZA. Il dizionario spiega che è l’esatto contrario della fragilità. Resiliente è ciò che all’urto non si rompe né crepa. Ma che all’urto resiste, in quanto lo assorbe. E persiste. Ebbene ci sono due modi, io dico, per pensare la resilienza, ovvero l’opposto della fragilità. Uno equivale a stornare lo sguardo: è pensarsi tutt’altro, rimuovere ogni indizio di una possibile vicinanza ‒ vissuta, percepita, foss’anche solo intuita. È cancellazione.
L’altro modo è quello che comprende la FRAGILITÀ, ovvero la prende con sé, la tiene da conto, fa i conti con le sue ragioni profonde e con le sue conseguenze. Equivale a scrivere nuove istruzioni per l’uso, giacché le vecchie erano andate smarrite, su come prendersi CURA non di una categoria di persone ma di quelle esigenze particolari che, ignorate, espongono ognuno a rottura, sotto forza di urto.
È un bell’articolo che aiuta a riflettere e capirne un po’ di più. Oggi le parole ci sommergono senza conoscerne bene la semantica e l’utilizzo. Andrebbero sempre contestualizzate ed utilizzate in maniera no equivocabile. Grazie Antonio hai ragione e pensa che parlare di fragilità da’ lustro ma spesso poi non corrispondono i fatti. Il prendersi cura delle persone non è filosofia ma dovrebbe passare attraverso un’ educazione mirata ed una specifica professionalità. Con gratitudine.
I fragili ci sono ancora, eccome! Sono quelli che, grazie al vaccino, il virus non ha ancora fagocitato. Esistono e ci si sforza in tutti i modi di farne conoscere il disagio, sebbene spesso, ahimè, resti inascoltato, non adeguatamente considerato. Disagio che non può che essere sempre specifico, singolare, personale, pur rientrando clinicamente in una molteplicità eterogenea di casi. Certo, ha ragione Antonio Castore, condividiamo il senso profondo del suo articolo: si deve purtroppo dire grazie al virus se oggi i fragili vengono riconosciuti come categoria. Almeno, quelli che, secondo una certa tabella, vengono indicati come gli “estremamente vulnerabili” e che, grazie appunto ai vaccini mRNA, ce l’hanno finora fatta. Ma esistono altresì i non catalogabili, quelli che sono talmente fragili e vulnerabili da non poter essere sussunti in nessuna categoria, riportati in alcuna tabella, perché, fino a prova contraria, per essi qualsiasi vaccino “potrebbe” essere deleterio. La medicina infatti non sa ancora come e cosa fare, non sa come prendersi cura di essi. Per la fragilità di questi altri soggetti non ci sono imballature o protezioni. L’unico rimedio per sopravvivere (anche qui ha ragione Castore) più che il distanziamento rimane per essi l’evitamento, l’asocialità, vale a dire il lockdown permanente, la segregazione, il continuare a restare chiusi in una bolla asettica, cioè in una casa che diviene alla lunga una cella asfittica, fuggendo i propri simili (con i danni che tutto ciò provoca inevitabilmente nel loro spirito, sia in quello di coloro che li accompagnano) non solo per il virus, ma soprattutto per quei prodotti che (ecco il paradosso, la contraddizione) tutti gli altri usano normalmente proprio per ragioni igieniche. Prodotti che vengono ragionevolmente reclamizzati e venduti in mercati che garantiscono posti di lavoro. Tali persone allora sono vittime non solo del virus, ma del sistema stesso su cui si fondano le nostre società moderne, così economicamente e industrialmente razionalizzate e avanzate, ma la cui iper-igienizzazione non le ha consentito affatto di evitare il virus, bensì di contrarlo.
Grande Antonio anche se lascia molto amaro dentro un abbraccio licia
Ottimo articolo ! Bravo Antonio ! Attraverso il significato delle parole ci aiuti a riflettere su quello che siamo e su quale sentiero dovremmo incamminarci. Altro che vie ad alta velocita’ ! A forza di andare sempre piu’ veloci non riusciamo spesso a distinguere i contorni della realta’ che ci circonda e in cui siamo immersi, immagini sfuocate che sfrecciano davanti a noi ingoiate una ad una dalla velocita’ che la modernita’ ci impone per raggiungere la meta. Ma quale ? Se solo riducessimo di un po’ la nostra velocita’ esistenziale saremmo piu’ consapevoli di quanta fragilita’ ci circonda e di quanta ne cova dentro di noi, distratti poi abbagliati quindi sedotti dai richiami delle sirene del progresso ( lo chiamiamo cosi’ l’ineluttabile scorrere del nostro tempo ) che ci inculcano gia’ nel nome stesso l’idea di un automatico valore aggiunto anche in cio’ che troppo spesso non lo ha. Quante piu’ risorse materiali e intellettuali potremmo destinare a costruire un’esistenza migliore per la collettivita’ senza distogliere lo sguardo dalle inevitabili fragilita’ della vita, senza piu’ considerarle come destino ineluttabile di pochi anche se tanti ma, con rinnovata consapevolezza, come principio di un rafforzamento benefico per tutti.