Nessuno si salva da solo. Dovremmo ripeterlo come un mantra e una promessa. Il silenzio, così insolito, sceso sulle nostre città la passata primavera, quelle visioni di strade vuote, di negozi chiusi, i parchi restituiti agli uccellini e agli scoiattoli, sembrava quasi giusto, salvifico, una pausa nella folle corsa verso la crescita infinita, una cura per il mondo sfinito dal virus del capitalismo. Ma oggi, quel silenzio nelle piazze, è desolante. Dopo mesi di apri e chiudi, di bonus tuttofare e ammortizzatori che chissà quando arriveranno davvero sui conti in banca, di regioni colorate, di caccia alle streghe ‒ i runner, i giovani, gli aperitivi, il cenone di Capodanno ‒ tutto pur di non ammettere mesi di promesse non mantenute, di manifesta incapacità di gestire l’emergenza, il necessario tracciamento, il sistema dei tamponi, una app inutile perché non ha mai funzionato, il fantomatico potenziamento della preziosa medicina di territorio, i banchi a rotelle come unico intervento tangibile sulla scuola, siamo stanchi. E soli, dietro allo schermo del pc, dello smartphone, alla finestra.
Giovedì 7 gennaio dovevano riaprire le scuole: ragazze e ragazzi si sono salutati nella zoom pre-natalizia dicendo «ci vediamo il 7!», credendoci poco, sperandoci molto. Il 7 le scuole non hanno riaperto e abbiamo, ancora una volta, sentito i nostri amministratori locali balbettare qualche parola su un fantomatico piano per la messa in sicurezza e per l’organizzazione dei trasporti a cui stanno lavorando (da dieci mesi ormai) non ancora pronto. I ragazzi e le ragazze sono stanchi, demotivati, arrabbiati, anche quelli che fino a qui avevano retto bene il cambiamento imposto, la pressione, la solitudine.
Giovedì 7 gennaio, mio figlio maggiore (primo anno di superiori) chiude il pc e decide di andare al presidio indetto da un collettivo di studenti. È l’unico della sua classe, cresciuto a pane integrale e manifestazioni, mi chiede di accompagnarlo. Le scuole sono chiuse ma i centri commerciali stanno aprendo le porte alla coda imbarazzante di persone che affollano gli ingressi perché cominciano i saldi. Si siederanno ai tavolini dei bar all’interno, a chiacchierare senza mascherina. Qui in centro città, le commesse attaccano le vetrofanie che promettono il 50% di sconto mentre ci dirigiamo verso piazza Castello. «Mamma non c’è nessuno… non capisco». Aspettiamo, è presto, fa freddo, non ho mai visto una manifestazione partire puntuale… Ma arrivano in pochi, troppo pochi, giovanissimi ragazzi e ragazze che i temerari del collettivo che ha indetto il presidio provano a organizzare, anche in modo efficace per quanto possibile. Chiedono di tornare a scuola in presenza e in sicurezza. Chiedono investimenti sulla loro generazione, ricordando che il Recovery Fund nel resto d’Europa si chiama Next Generetion EU e qui invece si perde il senso di responsabilità verso le nuove generazioni (che pagheranno questo debito) racchiuso nella definizione della Commissione Europea. Leggono dati e statistiche che indicano come la chiusura delle scuola da sola ‒ e non inserita in un contesto di lockdown severo e diffuso come a marzo ‒ non incida in modo significativo sui contagi (che infatti sono di nuovo in crescita anche se le scuole sono state chiuse a fine ottobre); raccontano il loro disagio, supportati da studi che individuano nell’isolamento forzato e nello studio a distanza un danno profondo, sia nell’immediato che nel medio e lungo termine, sull’apprendimento, sulla loro salute psicologica e sulla loro vita sociale, in cui il rapporto costi-benefici, peraltro non ben misurabile, non sembra reggere. La Dad è uno strumento emergenziale con molti limiti, su tutti l’aumento della dispersione scolastica, delle disuguaglianze sociali e della dipendenza dalla tecnologia fruita passivamente, contro cui ci siamo battuti fino a ieri.
Con uno sparuto capannello di genitori demoralizzati ci siamo chiesti dove fossero tutti, dove fosse finito il dissenso, dove le piazze di Greta, dove gli insegnanti e i dirigenti, strattonati in questo tira e molla tra Governo e Regioni e lasciati pressoché soli a inventarsi la gestione dei pochi spazi e risorse disponibili, dove i movimenti, tutti quelli che hanno compreso e accettato che è il sistema che va cambiato per sanare la crisi infinita in cui siamo intrappolati, crisi sociale, ambientale, politica, che fa temere per la tenuta dei nostri impianti democratici.
Dice Matteo Saudino (il professore diventato star di YouTube con il suo canale BarbaSophia e che scrive spesso sul nostro sito), in una recente intervista rilasciata a la Repubblica, che questa generazione non è abbastanza politica da organizzare il proprio disagio: «Oggi siamo nella società delle solitudini, ci si rassegna pensando che ognuno si salva da sé» e invece «la scuola è un elemento centrale nella democrazia e nelle società di massa per emancipare chi è più in difficoltà (e per dare una casa comune, strumenti e possibilità di confrontarsi e organizzarsi a tutti, aggiungo io) e se è chiusa e viene depotenziata contribuisce a far ammalare la democrazia».
La pandemia, nella scuola pubblica come nella sanità, ha solo reso molto più evidente e drammatico il disastro prodotto da anni di politiche ultraliberiste e di tagli agli investimenti pubblici in questi settori vitali. Viviamo un tempo extra-ordinario e servono quindi interventi altrettanto extra-ordinari. Dobbiamo pretendere un cambiamento e dobbiamo farlo anche organizzandoci e riappropriandoci delle piazze, ma anche nei circoli di quartiere, nei doposcuola, nelle organizzazioni sportive giovanili, nei mercati, nei luoghi dove tornare a parlare con le persone, ascoltare i bisogni e provare a immaginare risposte e risorse nuove per riconnettere una società dispersa, impaurita, disorientata. Una società dove la politica è il male, la politica è sinonimo di corruzione, di incapacità e chi fa politica è considerato, molto spesso a ragione, un manigoldo, membro di una casta che si autoriproduce, curando solo i propri interessi a scapito di quelli della comunità. Dove fare politica a scuola è sbagliato e sanzionabile. Un mondo dove il dissenso viene ridicolizzato, zittito e annientato, proibito per legge, come abbiamo più volte denunciato su questo sito e finanche il dubbio, il pensiero critico, la prudenza sono quantomeno sospetti. Il dissenso è inteso come espressione di mentecatti vestiti come Conan il barbaro, negazionisti e fascistoidi la cui presenza e le cui assurde affermazioni farebbero scappare la voglia di manifestare il proprio dissenso a chiunque, silenziando il dubbio. Dobbiamo ridare valore a parole abusate e svuotate, ridare alla politica la dignità dovuta alla forma di impegno sociale che dovrebbe rappresentare, ricordando a chi è impegnato in movimenti ambientalisti, in attività di solidarietà sociale o di volontariato, a chi sostiene l’accoglienza e la difesa dei diritti umani, che, forse senza saperlo, sta facendo politica e dalla partecipazione dei cittadini alla vita politica dipende la salute della democrazia. E dobbiamo farlo accanto alla generazione più giovane che è qui e ora, smettiamola di declinare il loro impegno al futuro, il futuro è oggi, è adesso.
Cara Sabrina, mi permetto di darti del Tu, da un padre ad una madre di figli sofferenti e martoriati da una società che non pensa più a loro. Sono lieto di leggere le Tue parole, così come sono rattristato dalla profondo, dolorosa verità che fanno emergere. I giovani sono i dimenticati del XXI secolo, sono i negletti della nostra società. La nostra civiltà occidentale, europea e cristiana, nonché patriarcale e ad oggi postindustriale, capitalista e neoliberista, ha costruito nei millenni – perlomeno a partire dall’alto medioevo – una propria matrice etica che punta alla conservazione della stabilità acquisita, alla tutela di organizzazione statale e familiare e alla relativa ricchezza, al rispetto dell’ordine costituito e dell’autorità. Una cultura, una civiltà basata sul mantenimento dello status quo a qualunque costo, anche quello di muovere cuori ed armi per la sua difesa ad oltranza. Cuori ed armi rispettivamente nel petto e nelle mani dei giovani, ci hanno insegnato secoli di guerre. Giovani che per un ideale erano – e devono ancora oggi – essere pronti a morire. Ma da chi è rappresentato quell’ideale? Dai giovani che neppure possono studiare e socializzare? No, è rappresentato da chi ha costruito il presente, da chi appartiene al passato. Questo significa il rispetto dei nostri anziani, la volontà pertinace ed ottusa di garantire loro un futuro anche al costo di annichilire i nostri figli, di perdere lavoro e benessere, socialità e cultura, armonia e libertà. La nostra civiltà antepone, a parole, la tutela dei deboli, ma chi sono i deboli? I nostri genitori ottuagenari che hanno già avuto, nel bene e nel male, il loro futuro o piuttosto i nostri figli che ad oggi neppure possono sognarlo? E’ giusto chiedere ai nostri figli di rinunciare a presente e futuro in nome nostro e dei nostri genitori, che neppure glie lo chiediamo (parlo almeno per me e per i miei genitori)? Ci rendiamo conto che il futuro di un paese si costruisce con le prospettive dei giovani e non con la memoria dei vecchi? La memoria si studia, si rispetta, si onora, ma non deve pretendere la vita dei suoi figli, altrimenti si ritorna indietro alle barbarie del secolo scorso. Quale genitore pretenderebbe mai l’unica pagnotta lasciando digiuno suo figlio o suo nipote? Abbiamo raggiunto uno stadio della nostra civiltà che per tutelare, spesso obtorto collo con violenze e reclusioni, la sopravvivenza (per quanto?) di chi ha costruito il presente nega presente e futuro ai suoi figli. Sento il peso delle mie parole e mi dispiace molto giungere a tanto, ma secondo me stiamo chiedendo troppo ai giovani di oggi, stiamo togliendo loro troppo, anzi, stiamo loro togliendo tutto. Quindi dico basta con questo terrorismo, con questa politica della sopravvivenza ad oltranza di persone che hanno raggiunto i loro anni e che, come qualunque essere vivente e sociale, hanno/abbiamo non solo il dovere biologico – condiviso con ogni specie vivente di questo mondo – di chiudere il proprio ciclo terreno, ma anche il dovere sociale di lasciare spazio ai figli che hanno/abbiamo messo al mondo non per servirci e riverici ma per avere una loro vita. Personalmente non credo nella morte, quindi non mi spaventa la morte: temo invece assi la sofferenza, mia e soprattutto dei miei figli. E siamo ad un passo dal renderla loro obbligatoria. Ultimamente mi sono abituato ad essere criticato, ad essere definito immorale, cinico, insensibile… Io controbatto che non è cinico accettare la morte dei nostri vecchi: cinico è ignorare gli oltre sei milioni di bambini nel mondo che muoiono ogni anno di malattia, le decine e decine di milioni di morti per ogni altra malattia diffusa sul nostro pianeta (aids, malaria, dissenteria, febbre gialla, polmonite, tbc, ebola), gli 800 milioni di persone (soprattutto bambini e giovani) che non hanno cibo, gli oltre due miliardi che non hanno acqua potabile, i due terzi di specie animali che saranno estinti per colpa dell’uomo di qui a pochi anni. Abbiamo il velo dell’ignoranza davanti agli occhi, ed assieme quello abbiamo il velo della prepotenza, dell’egoismo, della presunzione, dell’egoismo. O non abbiamo neppure più gli occhi? Mi ritorna in mente Zarathustra ed il grande cane che gli urlava che come tutti gli animali abbiano i loro parassiti anche la Terra ha il suo: l’uomo. Una creatura fallace e caduca talmente ignorante dal volersi elevare al rango di divinità immortale.
Quindi grazie Sabrina per le tue parole, parole di madre, parole di persona che desidera un futuro per i suoi figli. Siamo in molti a desiderarlo, ma in pochi ad avere il coraggio di dirlo, abituati come siamo dalla storia che i sacrifici dei giovani siano alla base della sopravvivenza. Dovremmo prendere la piroga più vecchia e prendere il largo, come fanno gli anziani dei popoli polinesiani quando si rendono conto che non ci sono risorse per tutta la famiglia. Ed invece le pretendiamo per noi e le togliamo ai nostri figli. Incivili loro e civili noi? Può essere, ogni civiltà ha diritto a custodire e onorare la propria cultura. Ma ci sono culture che portano alla prosecuzione della civiltà, altre che rischiano di estinguerla.