1. Secondo il vocabolario Zingarelli per “didattica” s’intende il «settore della pedagogia che ha per oggetto lo studio dei metodi per l’insegnamento». Quindi la didattica è un metodo di lavoro che ogni docente apprende lungo il proprio percorso di crescita professionale.
L’atteggiamento teoreticista che ha caratterizzato per un lungo tratto di tempo larga parte dell’università italiana ha favorito il consolidarsi di una didattica che fino a poco tempo fa ha sottovalutato l’importanza di una formazione dei docenti incentrata sul rapporto fra apprendimento teorico ed esperienza pratica.
Ciò non ha impedito ai docenti di acquisire sul campo, cioè a partire dalla propria esperienza, una sensibilità alle questioni di metodo d’insegnamento. Da varie analisi svolte sul campo nel ventennio scorso emerge con chiarezza che nella storia individuale di ciascun docente sia la vocazione all’insegnamento, sia il processo di interiorizzazione della didattica che poi saranno alla base dei loro metodi d’insegnamento, avviene su base individuale, per ispirazione o in opposizione a modelli derivanti dalla propria storia personale di discenti, di figli, di lettori, etc. E poi embricando ciò che deriva da queste “primitive” esperienze con la propria pratica quotidiana e, almeno per molti docenti, in base ai precetti forniti dai vari gruppi di mutuo-aiuto presenti sia a livello locale, sia a livello nazionale.
Questo personalissimo lavorìo dà luogo a una vera e propria foresta delle didattiche che sarebbe riduttivo vedere solo come il tentativo di riparare alle carenze che su questo piano mostrano da sempre il nostro legislatore e la nostra accademia. Guardando al fenomeno più da vicino, infatti, si nota innanzitutto che tutti i docenti ‒ anche coloro che sono capitati a scuola per caso ‒ nel momento in cui si ritrovano a insegnare scoprono di essere abitati da sempre da individualissimi “personaggi della formazione”, cioè dall’insieme degli introietti e delle proiezioni che derivano da coloro che hanno fatto da modello lungo il percorso di crescita individuale e professionale di ognuno, e che fra l’altro ‒ come dicevamo prima ‒ costituiscono la base di partenza dei loro metodi d’insegnamento. Ciò da una parte permette loro di non aderire a un cliché e di costruirsi un modello sentito come proprio. Dall’altra li espone alla de-idealizzazione e al burnout più facilmente di quanto lo siano coloro che aderiscono a un modello standard di didattica.
Da queste considerazioni sulla didattica discende un importante corollario: ogni docente nel momento in cui insegna una qualsiasi materia a un discente contemporaneamente lo “segna di sé” contribuendo fra l’altro, insieme alle persone più importanti che nel proprio percorso di vita il discente incontrerà, alla definizione del profilo del suo specifico “personaggio della formazione”.
2. La stragrande maggioranza dei docenti oggi tende a contrapporre la didattica in presenza a quella digitale. La natura difensiva di questa improvvisa opposizione manichea appare evidente laddove si consideri da una parte l’elemento di straordinarietà rappresentato da questo oggi pervaso in maniera funerea dalla pandemia; dall’altra la pulsione al riduzionismo cui per le stesse funeree ragioni è sottoposta la parola “presenza”.
Prima che calasse su di noi la pandemia c’è stato infatti sul campo un insieme di riflessioni e di sperimentazioni intorno al rapporto fra operatività scolastica in presenza e nuove opportunità offerte dal digitale. Protagonisti di questi dibattiti e di queste sperimentazioni sono stati ricercatori e docenti appartenenti all’ultima generazione di “nativi Gutenberg”, preoccupati delle difficoltà derivanti dal fatto di rivolgersi alla prima generazione dei “nativi digitali” elaborando una didattica nuova, capace di sfruttare appieno le nuove opportunità comunicative legate alla digitalizzazione. Nel frattempo l’Istituzione Scolastica centrale (il Ministero e i suoi derivati) per lo più si era limitata a informatizzare uniformemente le amministrazioni scolastiche, in un’ottica di standardizzazione delle procedure, utilissima sul piano amministrativo, ma ovviamente basata su criteri opposti a quelli della sperimentazione.
L’arrivo della pandemia non solo ha imposto all’improvviso di superare a piè pari la logica sperimentale che aveva caratterizzato negli ultimi decenni l’azione dei docenti sul campo ma, sulla spinta dell’emergenza, ha prodotto una specie di invasione di campo, attraverso l’imposizione da parte dell’istituzione scolastica di quelle logiche standard che sul piano amministrativo avevano un senso, sulla definizione delle linee di una didattica digitale ne hanno uno opposto. Ciò ha provocato un irrigidimento dei docenti e l’assunzione di una posizione difensiva che potrebbe condurre alla dispersione di tutto il patrimonio di sperimentalità che aveva caratterizzato finora l’azione di molti docenti e sperimentatori sul campo.
3. Ho lavorato come psicologo dal 1974 al 1985 in un luogo ‒ Correggio, Reggio Emilia ‒ in cui in quel tempo c’erano molte madri che lavoravano a domicilio. La spirale dell’autosfruttamento che facilmente alligna dovunque ci sia lavoro a domicilio remunerato a cottimo, le spingeva ad ampliare ad libitum il tempo dedicato al lavoro anche quando in casa c’erano dei figli piccoli da accudire. Per cui era facile in questi casi trovarsi di fronte a una scena in cui nella stessa stanza c’erano i figli piccoli della madre lavorante a domicilio e lei di fronte a loro presa totalmente dal proprio lavoro. Lo scarso spessore di questa presenza traspariva dai vari problemi psicologici che emergevano sia in lei che nei suoi figli.
Questo è quanto mi viene in mente allorché si contrappone la didattica in presenza a quella in distanza. Lo spessore della presenza, infatti, non è legato alla compresenza fisica quanto alla complanarità psicologica, cioè al fatto che ci sia uno scambio basato su quel “ricevere mentalmente” (dek) che è alla radice sia della parola “docente” che a quella “discente”. Per cui nulla può impedire a un docente di disporsi nei confronti dei propri discenti come una presenza assente (come accadeva nei famosi doposcuola del maestro di Vigevano!). Così come nulla impedisce di pensare che, prima o poi, possano scaturire mille didattiche capaci di dare spessore e profondità alla “presenza in distanza” (come del resto sta affannosamente avvenendo in questi mesi attraverso webinar, conferenze online etc.).
Certo è che noi per ora conosciamo bene solo la didattica in presenza; siamo capaci di darle un timbro personale che abbiamo introiettato e che poi abbiamo fatto nostro in itinere; sappiamo come trasmettere in presenza il nostro sapere alle generazioni che vengono dopo di noi; e a volte siamo coscienti che non è solo questo sapere che passa, ma anche qualcosa di noi stessi che si trasmette attraverso l’esempio. Ma non credo assolutamente che questo, prima o poi, non possa essere riprodotto attraverso una messa a punto di una didattica basata sulla “presenza in distanza”. Ci sarà sicuramente bisogno di tempo. Probabilmente la cosa sarà facilitata allorché questa prima generazione di nativi digitali sarà diventata adulta e per-ciò capace di passare dal terreno della discenza a quello della docenza. Ma spero che, passata la pandemia, coloro che fanno scuola oggi sappiano riprendere una posizione critica e sperimentale nei confronti del digitale.
Post scriptum: sicuramente la didattica a distanza è profondamente classista! Non dimentichiamo però che ciò non fa altro che confermare il crogiolo classista presente in classe e nella società.
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