Alla fine la seconda ondata è arrivata.
Era prevedibile. Si poteva fare di più. Si doveva fare di più. Si doveva fare prima. I come, i se, i perché occuperanno i dibattiti e le analisi dei prossimi mesi. A oggi, poco importa. Perché nel frattempo gli ospedali hanno ricominciato a riempirsi, i pronti soccorso a essere intasati, i reparti a essere riconvertiti per accogliere sempre più malati, cercando di sopperire, così, alla cronica mancanza di posti letto (ma anche di personale e di risorse). Muri buttati giù in primavera sono tornati a separare le zone pulite, quelle destinate alle normali degenze, da quelle sporche, le aree Covid.
Di nuovo, si è tornati a separare il fuori e il dentro, il mondo esterno, alle prese con suddivisioni del territorio in zone di diversi brillanti colori, quasi fosse un’aggiornata versione di Risiko, da quello interno dei reparti ospedalieri, fatto di storie e vissuti di pazienti e di personale sanitario che ormai siamo abituati a vedere solo più vestito con tute da astronauta e maschere filtranti a nascondere il viso.
Tra l’una e l’altra realtà una divisione quasi impenetrabile.
Eppure, indagare cosa accade “dentro” diventa oggi l’unico modo per dare un senso a ciò che sta succedendo “fuori” e, per farlo, serve la voce di chi, come la dott.ssa Chiarlo dell’Ospedale Giovanni Bosco di Torino – che ha già commentato la prima ondata (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2020/04/01/cronache-da-un-ospedale-in-tempo-di-covid-19/) –, vivendo quei luoghi tutti i giorni, può rendere una lucida e responsabile testimonianza dello tsunami che, a distanza di pochi mesi, ci troviamo di nuovo ad affrontare.
Era domenica ed eravamo nel pieno della classica frenesia notturna:
incidenti domestici, infezioni eruttive, suicidi abortiti, aborti mancati,
sbronze comatose, infarti, attacchi epilettici, embolie polmonari,
coliche nefritiche, bambini bollenti come pentole, automobilisti in polpette,
spacciatori fatti a colabrodo, barboni in cerca di alloggio,
donne picchiate e mariti pentiti, adolescenti fumati, adolescenti catatonici.
Daniel Pennac, La lunga notte del dottor Galvan
P., trent’anni, unghie viola e capelli a treccine, giunge in Pronto soccorso piegata in due dal dolore. La diagnosi non è difficile: da gennaio P. sa di avere un sacchetto di calcoli al posto della colecisti, da febbraio è in lista per l’intervento, a marzo l’avevano perfino chiamata per il pre-ricovero, ma poi hanno sospeso ogni attività chirurgica d’elezione. P. ha una colica biliare, le somministro gli antidolorifici in attesa degli esami, che confermano il mio sospetto: non c’è nulla di così grave da indicare un intervento immediato. Quando lo dico a P. sembra delusa, posso capirla: la sto mandando a casa condannandola ad altre coliche fino a chissà quando. «Non mi operate?». «No, non oggi sicuramente», ma probabilmente neanche il mese prossimo e chissà per quanto altro tempo. La chiusura delle attività “non urgenti” sta producendo sul sistema sanitario un problema analogo a quello che affligge i ristoratori e altre attività commerciali. L’unica differenza è che il loro fallimento è rappresentato dalla chiusura, il nostro dall’estendersi infinito delle liste d’attesa.
R., barba folta e altezza notevole, mani che cingerebbero senza problemi un mio polpaccio con due dita, presenta una notevole somiglianza con l’Hagrid di Harry Potter. Gran lavoratore, buon carattere, si distingue dal proprio alter ego letterario unicamente perché alla “burrobirra” del Paiolo Magico preferisce la versione “babbana” del pub sotto casa. Il motivo dell’accesso in Pronto soccorso è un dolore alla bocca dello stomaco che sembra quasi un infarto. Non lo è, ma gli esami non mentono: R. ha la cirrosi epatica, a uno stadio piuttosto avanzato. Per colmo di sfortuna ha anche il coronavirus, totalmente asintomatico. Non posso ricoverarlo in reparto Covid perché è asintomatico, ma neanche appoggiarlo a un ambulatorio di gastroenterologia finché il suo tampone si sarà negativizzato. Imposto una terapia e lo dimetto, nella speranza che a casa non peggiori.
N., 75 anni, ha pensato di approfittare di questo nuovo confinamento in zona rossa per portare a termine quei lavoretti casalinghi che si rimandano sempre: appendere i quadri con le nuove foto dei nipoti, fissare l’anta della dispensa allentata da mesi, montare un attaccapanni. Mentre è dedito a queste attività scivola dalla sedia, cade male, ha dolore, finisce al Pronto soccorso con una frattura di femore. Nell’era pre-Covid era una delle urgenze più semplici: esami del sangue, richiesta per le trasfusioni, elettrocardiogramma, radiografia del femore e del torace, visita anestesiologica e via in sala operatoria di ortopedia. In qualche ora N. sarebbe tornato nuovo. Oggi, invece, me lo ritrovo a 16 ore dal trauma sdraiato a letto con un peso attaccato al piede per tenere dritta la gamba. In questa seconda ondata Covid abbiamo nuovamente una sola sala operatoria aperta, quella delle urgenze, per la quale competono molti interventi: l’emorragia cerebrale, l’ischemia acuta di un arto, la perforazione intestinale, tutte situazioni in cui il paziente rischia di perdere l’integrità corporea o di morire se non viene operato rapidamente. E poi ci sono le fratture di femore, i calcoli renali incuneati, le appendiciti, che sono sì urgenti, ma non questione di vita o di morte e che finiscono, quindi, sempre in coda a interventi più gravi e necessari. L’ortopedico spiega a N. la situazione: se vuole avere speranze di essere operato entro oggi dobbiamo trasferirlo in un altro ospedale. Altrimenti il suo femore avrà speranza di essere aggiustato domani, forse, sempre che non arrivino altre urgenze più impellenti.
L’emergenza Covid è anche questo: un domino in cui migliaia di prestazioni sanitarie vengono differite sempre di più. Le urgenze più gravi scalzano le meno gravi, che attendono più del dovuto, creando a loro volta ritardi astronomici in tutto il resto.
Non c’è soluzione: le risorse, gli spazi, gli operatori sono beni finiti in un contesto di bisogno di salute incrementato. Non diversamente dal trovarsi a scegliere chi penalizzare tra scuola, bar, ristoranti, teatri, legami familiari, librerie e centri sportivi, non c’è una risposta semplice: qualcuno ci rimetterà ingiustamente. Possiamo trasformare alcuni ospedali in centri Covid e mantenerne altri “puliti”, oppure dividere i percorsi, ma per quanto possiamo lambiccarci a escogitare soluzioni fantasiose i conti non torneranno comunque e migliaia di persone con le patologie più varie rimarranno senza assistenza.