Se il silenzio prende il posto del rumore

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Nei due mesi del lockdown, autovetture, aeroplani, la maggior parte delle fonti di rumore è scomparsa dal nostro orizzonte sonoro. Una condizione esistenziale totalmente nuova e aliena per la società del rumore: un rumore di fondo che sentiamo distrattamente, senza farci caso, che riempie ogni istante della giornata ma senza entrare mai in relazione col nostro agire, anzi spesso provocando disturbo.

Quante volte ci siamo stupiti, compiaciuti, della scomparsa del traffico nei pressi della nostra abitazione, dove trascorrevamo il nostro tempo! Quante volte, nella breve passeggiata che ci siamo concessi, ci siamo sorpresi nel notare l’assenza di aerei sopra le nostre teste! Nastri d’asfalto che, ai tempi della Zona rossa, hanno assunto una dimensione inaspettatamente piacevole e seducente; una dimensione colta non a caso anche dal mondo animale, che ha osato rioccupare quello spazio, sovente pericolo mortale. Cieli segnati esclusivamente da astri e pianeti mai così protagonisti.

Il rumore ci ha fornito una tregua, ci ha risparmiato la sua quotidiana e ingombrante presenza. Un rumore che solca, fedele compagno, il tempo della nostra vita, quello stesso tempo produttivo senza posa che si declina nelle varie forme della confusione, del frastuono, del chiasso, ma che è soprattutto un costante stillicidio. Un rumore, appunto, che non è solo l’effetto di motori a scoppio o a reazione, ma anche dell’esorbitante quantità di stimoli informativi e comunicativi che riceviamo costantemente, senza esserne consapevoli. Siamo circondati da un rumore di fondo che non ascoltiamo, ma che percepiamo, che sentiamo grossolanamente, cui reagiamo solo quando (e ciò capita piuttosto spesso) ci infastidisce.

In quei due mesi, le fonti del rumore si sono improvvisamente e inaspettatamente placate, modificando radicalmente il mondo da cui siamo circondati: un’occasione unica, ahinoi troppo breve, di affiancare alla riflessione sul tempo anche quella relativa al silenzio. Silenzio che non si esaurisce in una dimensione esterna, ma che si trasferisce giocoforza nell’opportunità di ascolto interiore; l’ascolto sottende una competenza più raffinata, l’elaborazione di una capacità che nel mondo del tempo produttivo e del rumore di fondo non siamo in grado di concederci.

Non eravamo abituati al silenzio. Il rumore è una costante della nostra vita, colmando, seppur vano placebo, i nostri deserti interiori; il silenzio, al contrario, rimanda al vuoto e ce lo rende plastico. Ebbene, il vuoto ha rappresentato una grande opportunità: ritrovarci soli, dentro di noi, all’interno delle nostre case, senza il caos costante e rassicurante che ci circonda.

Del resto afferma Zygmunt Bauman: «Quando si evita a ogni costo di ritrovarsi soli, si rinuncia all’opportunità di provare la solitudine: quel sublime stato in cui è possibile raccogliere le proprie idee, meditare, riflettere, creare e, in ultima analisi, dare senso e sostanza alla comunicazione». Lo stesso Papa Francesco il 21 aprile, nell’introduzione della messa a Santa Marta, ha osservato: «In questo tempo c’è tanto silenzio, si può anche sentire il silenzio. E questo silenzio, che è un po’ nuovo nelle nostre abitudini, ci insegni ad ascoltare, ci faccia crescere nella capacità di ascolto. Preghiamo per questo». E a fianco delle citazioni di grande livello non può mancare quella di Pepe Mujica, un vero e proprio inno al silenzio, semplice e vero come è lui: «La peggiore solitudine è quella che abbiamo dentro, è tempo di meditare. Parla con quello dentro di te, è tempo di pensare un po’, guardare fuori il cielo da una finestra o quanto meno immaginarlo». 

Nei giorni di quarantena, pressoché chiunque ha sperimentato questa dimensione dura e rivoluzionaria, interiore ed esteriore allo stesso tempo. Ma quanti di noi saranno stati in grado di ascoltare quel silenzio e, soprattutto, di reggerne il peso?

La dimensione della paura non può prescindere anche da questo fondamentale aspetto. Paura del vuoto, del silenzio che denuda, che mette in mostra le proprie fragilità, il non saper stare senza quel rumore di fondo disturbante ma rassicurante al contempo, perché non ti richiede di pensare. Paura dei vuoti, intesi anche come pause che, all’epoca delle comunicazioni online, rischiano di essere insopportabili senza la possibilità di cogliere lo sguardo dell’altro. Paura, appunto dell’invisibile, dentro e fuori di noi.

Una nuova sapienza: non rompere quel silenzio, perché si impara a non temerlo, a conviverci. In una logica laica e religiosa simultaneamente, esercitandoci al silenzio, ci avviciniamo alla morte, all’eterno, all’infinito.

Un’altra dimensione del silenzio che può farsi ascolto e non semplice sentire, della duplice natura interiore ed esteriore di un fenomeno che non sappiamo se potremo rivivere, è stata la trasformazione della città nella Zona rossa. Chi vive in luoghi tranquilli e isolati, come in montagna, non ha certamente avvertito la medesima metamorfosi sonora avvenuta durante il lockdown: ma quando una città tace negli orari che di solito la animano, diveniamo consapevoli che il silenzio che la circonda è in un certo senso innaturale, quasi come se fosse stata colpita da una rigidità cadaverica.

Il silenzio dentro una cintura urbana non è, né potrà mai essere lo stesso di quello che deriva dall’immersione nella natura: in natura il silenzio non esiste, ma è piuttosto una selezione di suoni spesso armoniosi e ritmici. Il silenzio, paradossalmente ma non troppo, è stato quello delle città che si sono fermate, che sono diventate giganteschi ammassi di operatività immobilizzata dal virus. Ammassi inutili senza un tempo produttivo, senza quel rumore di fondo che le muove ogni giorno. Un silenzio al contempo artificiale e naturale, perché generato dal ritorno del pianeta all’interno degli emblemi della presenza umana.

Gli stessi simboli della pandemia sono simboli che invitano al silenzio: le mascherine ci imbavagliano e ci costringono a limitare la parola, moderna effigie di un morbo che colpisce i polmoni, e dunque per prima cosa zittisce, rigetta in gola ciò che vorremmo rappresentare col rumore della parola.

Anche di fronte alla morte non è stata possibile nessuna eccezione: il silenzio se ne è impadronito. In quei tragici due mesi non è stato possibile esprimere la vicinanza alle famiglie delle tante vittime, neppure celebrando loro un funerale che potesse consentire a congiunti, familiari, amici e conoscenti di partecipare e di manifestare la propria prossimità. Quelle povere vittime se ne sono andate senza nomi e senza volti, senza rumore, senza voci che li ricordassero. In quel periodo si è morti nel silenzio più assoluto, nella solitudine.

Il linguaggio della pandemia non ha avuto la benché minima pietà e comprensione per il silenzio, tra proclami belligeranti e desiderio di ripartenza, ovvero di ritorno al rumore di fondo. Quel linguaggio così connivente all’economia è stato il primo a non rispettare il silenzio, quello che interrompe la produttività, quello delle città colpite nel loro attivismo, nei loro meccanismi interrotte nel loro rumore quotidiano.

Eppure pandemia significa tutta la gente, quella gente che – osiamo auspicare – avrebbe trovato nel silenzio non le risposte, ma le domande a una vita che ha timore, probabilmente orrore, del silenzio.

Gli autori

Francesco Fantuzzi

Francesco Fantuzzi, animatore del gruppo civico Reggio Città Aperta, consigliere della cooperativa di finanza mutualistica e solidale Mag6, è promotore di iniziative di partecipazione civica culturale e ambientalista nel settore dei beni comuni. Ha scritto da ultimo, con Franco Motta, "Dentro la zona rossa. Il virus, il tempo, il potere" (Sensibili alle foglie, 2020).

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