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18/04/2020 di: Alessandra Algostino
L’emergenza sanitaria in atto ha messo a nudo i vuoti derivanti da un sistema sanitario sottofinanziato e dallo smembramento della medicina preventiva e territoriale e, insieme, la fragilità delle misure di sostegno sociale, sempre più depauperate (quando non surrogate da politiche di espulsione delle marginalità sociali o dalla ghettizzazione delle fasce sociali deboli nel mercato del lavoro sommerso). Ad essere abbandonato è, per ragionare in termini costituzionali e andando alle radici, il progetto di emancipazione e di eguaglianza sostanziale della Costituzione (art. 3, comma 2).
I limiti di politiche, embedded al finanzcapitalismo, di decurtazione e privatizzazione dei servizi pubblici sono evidenti, ma non è altrettanto scontato che ciò, un volta “passato il pericolo”, generi un’inversione. Anzi, nella crisi economica si annida il rischio di politiche di austerità e di ulteriore liquidazione dei servizi pubblici; per tacere della crescita delle diseguaglianze che la crisi può trascinare con sé.
Le istanze dell’economia, della global economic governance, hanno progressivamente reso lo Stato sempre più etero-diretto. Il ruolo che lo Stato è stato chiamato a esercitare per affrontare l’epidemia, può riportare al centro la politica? E la politica saprà resistere alle pressioni dei poteri economici?
Un primo banco di prova è la resistenza contro immediate riaperture (quando non mancate chiusure) di settori produttivi, ovvero l’applicazione del secondo, negletto, comma dell’art. 41 della Costituzione, laddove l’asserzione, in puro stile liberale, del primo comma («l’iniziativa economica privata è libera») è circoscritta dall’affermazione che essa «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana».
Messo alla prova è, poi, il terzo comma dell’art. 41 Costituzione: le misure che saranno adottate per fronteggiare la crisi economica, saranno «indirizzate e coordinate a fini sociali», nell’orizzonte dell’art. 3, comma 2, o mireranno a salvaguardare non tanto il lavoro quanto i profitti (di alcuni)? Gli strumenti di assistenza sociale saranno concepiti nella prospettiva dell’emancipazione o in quella di ammortizzatori sociali atti unicamente a calmierare e neutralizzare esplosioni di conflitto sociale?
Il rischio è che la retorica della “ripresa” evochi un clima di unità nazionale che colpisca la democrazia politica, chiudendo gli spazi di dissenso e di conflitto e la stessa democrazia economica, presentando come imprescindibili dei sacrifici (ça va san dire, da parte dei lavoratori) che porteranno alla distruzione di quel che resta del diritto del lavoro.
Il pericolo è che al Covid-19 segua il virus di un TINA (There Is No Alternative) che colpisce, forse, più ancora che non le classiche libertà liberali, i diritti sociali e del lavoro, così come gli spazi del dissenso, con un lockdown del conflitto sociale.
Il ritorno alla normalità deve essere a un’altra normalità, altrimenti «ci ritroveremo in una nuova barbarie» (Žižek). Ma esistono le forze sociali e politiche in grado di rivendicare e sostenere un mutamento di rotta? Nell’emergenza sono venute alla luce o si sono reinventate forme di solidarietà sociale, in alcuni casi si sono costruiti inediti legami “di vicinato” (che manifestano l’esistenza di una vivacità sociale, che spazia dai movimenti sociali all’associazionismo nelle sue mille sfumature), ma piccoli sommovimenti dal basso avranno la forza di articolarsi in una dimensione collettiva ampia e capace di proporre e far irrompere sulla scena politica una visione del mondo altra?
L’attuazione della Costituzione, con la centralità della persona e il progetto di emancipazione e giustizia sociale, potrebbe essere un passo in questa direzione: conferire la forza del diritto costituzionale a un progetto politico alternativo (per quanto suoni paradossale tale aggettivo se riferito alla higher law) alla pervasività, alle istanze egemoniche, alle diseguaglianze e alla letalità del neoliberismo.