La Costituzione e l’importo “da fame” della pensione di inabilità

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Non occorrono bizantinismi per definire l’attuale importo della pensione di inabilità, 285,66 euro al mese per l’anno 2019: una somma «da fame». Di più, in contrasto con la Costituzione che all’articolo 38 prevede che «ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale». Non si può certo chiamare mantenimento quello garantito – anzi, impossibile da garantire – con il misero importo citato. La questione di costituzionalità – di evidente rilevanza generale nelle politiche assistenziali e di portata potenzialmente epocale per le persone con disabilità grave – è stata sollevata a Torino, in una causa intentata contro l’Inps da una signora quarantasettenne affetta da tetraplegia spastica neonatale, tramite il proprio padre e tutore. A sostenerla l’Unione per le persone con disabilità intellettiva (Utim), associazione aderente al Coordinamento sanità e assistenza tra i movimenti di base, che opera a livello nazionale dagli anni Settanta per la difesa e la tutela dei diritti dei non autosufficienti.

Nel merito, la signora S. B. con ricorso del 3 ottobre 2016 ha chiesto al Tribunale di Torino di imporre all’Inps l’adeguamento della pensione di inabilità all’«assegno sociale», cioè la maggiorazione della pensione prevista dall’articolo 38 della legge 28 dicembre 2001 n. 448, che viene già oggi automaticamente riconosciuta agli inabili al lavoro e sprovvisti dei mezzi per vivere ultrasessantacinquenni. L’importo complessivo della pensione sarebbe così salito a 516,46 euro al mese, ma l’Inps aveva negato tale incremento con la motivazione che la richiedente non aveva ancora raggiunto l’età idonea.

Da questo rifiuto è partita la causa, che ha contestato l’importo della pensione percepita dalla ricorrente «largamente insufficiente a garantirle il soddisfacimento dei bisogni primari della vita» e discriminatoria nei confronti delle persone infra sessantacinquenni (inspiegabilmente penalizzate da un importo inferiore di quasi il 50% di quello riservato alle persone più anziane). Tecnicamente, nel ricorso è stata avanzata la questione di legittimità costituzionale anche della norma prevista dall’articolo 38, comma 4 della legge n. 488/2001 «nella parte in cui subordina il diritto degli invalidi civili totali, affetti da gravissima disabilità e privi di ogni residua capacità lavorativa, all’incremento previsto dal comma 1 del medesimo articolo anche a chi avesse raggiunto il requisito anagrafico del 60° anno di età». Inoltre, nel ricorso si chiedeva la remissione degli atti alla Corte costituzionale per valutare il contrasto della normativa vigente con l’articolo 38 della Carta, sopra citato. È possibile, chiede in sostanza il ricorso, chiamare mantenimento l’importo di meno di 300 euro mensili, che dovrebbero consentire alla persona con disabilità grave, spesso nemmeno in grado di manifestare le proprie esigenze, di vivere in autonomia?

L’illegittimità della normativa in vigore veniva ricondotta anche al contrasto «con gli articoli 4 e 28 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità stipulata a New York il 13 dicembre 2006, resa esecutiva in Italia con la legge 18/2009, nonché con gli articoli 26 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea richiamata dall’articolo 6 del Trattato di Lisbona».

L’eccezione e la richiesta di merito sono stati respinti dal Tribunale di Torino con sentenza del 21 settembre 2017 ma la ricorrente non si è scoraggiata e ha proposto appello. Gli atti sono così pervenuti alla Corte d’appello di Torino che, con ordinanza del 29 maggio scorso ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata sia la questione di legittimità costituzionale della discriminazione tra soggetti assolutamente assimilabili, solamente di età diverse, sia quella della normativa vigente «nella parte in cui attribuisce al soggetto totalmente inabile, affetto da gravissima disabilità e privo di ogni residua capacità lavorativa, una pensione di inabilità di importo, pari nell’anno 2018 ad euro 282,55 e nell’anno 2019 ad euro 285,66, insufficiente a garantire il soddisfacimento delle minime esigenze vitali».

Se la Corte costituzionale avallasse le valutazioni della Corte d’appello e accogliesse le eccezioni proposte sarebbe una vera e propria rivoluzione nella condizione delle persone con disabilità grave inabili al lavoro e sprovviste dei mezzi per vivere.

Per questo è utile riportare i passaggi fondamentali dell’ordinanza della Corte d’appello di Torino:

«L’importo sopra indicato della pensione di inabilità percepito dalla S. B. (…), non è certamente sufficiente, per comune esperienza, a garantire all’appellante il soddisfacimento dei più elementari bisogni della vita, come alimentarsi, vestirsi e reperire un’abitazione, e ciò tanto più considerando che la stessa, a causa della gravissima patologia da cui è affetta, è priva della benché minima capacità di guadagno e non è quindi in grado di svolgere alcuna attività lavorativa che potrebbe in ipotesi consentirle di procurarsi un reddito che, cumulato col trattamento pensionistico in godimento e di entità tale da non comportare il superamento del limite reddituale richiesto dalla legge per il mantenimento della prestazione assistenziale, possa garantirle di far fronte alle minime esigenze vitali. […]

[La questione di legittimità costituzionale] appare non manifestamente infondata in relazione anzitutto all’articolo 38, comma 1, della Costituzione che sancisce il diritto di “ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere… al mantenimento e all’assistenza sociale”. Vero è che il legislatore gode di discrezionalità nella individuazione e determinazione delle misure atte a concretizzare “il diritto al mantenimento” sancito dalla disposizione costituzionale, ma tale discrezionalità trova un limite nella necessità di assicurare il soddisfacimento delle esigenze minime vitali della persona, esigenze minime che – come già osservato – la pensione di inabilità in godimento a S. B. non è certo in grado di assicurare. […]

La questione di legittimità costituzionale [appare non infondata] anche in relazione all’articolo 3 della Costituzione, che sancisce l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge senza distinzione “di condizioni personali e sociali” (comma 1) e pone a carico della Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitando di fatto la libertà ed eguaglianza dei cittadini impediscono “il pieno sviluppo della persona umana” (comma 2) […] e agli articoli 10, comma 1, e 117, comma 1, della Costituzione che rispettivamente prevedono che l’ordinamento giuridico italiano debba conformarsi “alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute” e che la potestà legislativa dello Stato debba essere esercitata nel rispetto anche “dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”. […]

La limitazione dell’incremento in parola agli invalidi civili totali di età pari o superiore a 60 anni appare anch’essa irragionevole allorché l’invalido, come nel caso ben prima del compimento del 60esimo anno di età, si trovi in ragione delle patologie sofferte in condizioni di gravissima disabilità e privo della benché minima capacità di guadagno: questa situazione non appare certo meritevole di minor tutela rispetto a quella dell’invalido civile totale che abbia mantenuto una residua capacità di guadagno e non soffra di patologie che lo rendano non autosufficiente e che, però, al compimento del 60° anno di età, e unicamente in conseguenza del raggiungimento di tale requisito anagrafico, acquista il diritto a conseguire l’incremento in parola. […]

Deve quindi ritenersi non manifestamente infondata […] anche la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 38, comma 4 della legge 28 dicembre 2001 n. 448 laddove subordina il diritto degli invalidi civili totali, anche se in condizioni di gravissima disabilità e privi di ogni residua capacità lavorativa, all’‘incremento’ in esso previsto al raggiungimento del requisito di 60 anni di età».

Ora la parola è alla Corte costituzionale.

Gli autori

Andrea Ciattaglia

Andrea Ciattaglia (Torino, 1985), giornalista, lavora per la Fondazione promozione sociale onlus, organizzazione di promozione e difesa dei diritti dei malati e delle persone con disabilità non autosufficienti. Ha scritto con Maria Grazia Breda il libro “Non è sufficiente!” raccontando le storie di chi lotta per affermare il diritto alle cure negato da istituzioni e aziende sanitarie ai più deboli fra i malati.

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2 Comments on “La Costituzione e l’importo “da fame” della pensione di inabilità”

  1. Solo per una corretta informazione. che , però, non sposta nulla rispetto al contenuto dell’articolo. La pensione di cui si parla non è di “inabilità” ma di Invalidità civile, ed è ,come fattispecie, una prestazione assistenziale, non previdenziale, indipendente, quindi, dall’aspetto lavorativo ( spetta a chi viene riconosciuta una percentuale di invalidità superiore al 74% sia se lavora sia se non ha mai lavorato) . l’importo è fisso.
    La pensione di Inabilità, invece, è una prestazione previdenziale che può essere erogata solo a a quei cittadini che , previa visita presso la commissione medica dell’INPS, vengano riconosciuti inabili a qualsiasi attività lavorativa e devono poter far valere un requisito anche contributivo. L’importo non è fisso ma dipende dalla quantità e qualità dei contributi versati.

  2. L’osservazione del lettore Santo Laganà è giusta e lo ringrazio della chiarificazione e dell’apprezzamento dell’articolo. I termini sono quelli riportati nell’ordinanza citata ed è purtroppo la stessa Inps che genera confusione. Infatti, l’utente che immette nel motore di ricerca dell’Inps le parole «Pensione invalidità civile» vede comparire fra le scelte possibili il bottone «Pensione inabilità per invalidi civili», che dà accesso alle spiegazioni su cos’è, come funziona, quali sono i requisiti ecc. della…invalidità civile! Insomma, grande è la confusione sotto il cielo, per cui precisare termini e contenuti è sempre utile.
    Ad aumentare la confusione c’è che la pensione di invalidità civile viene riconosciuta solo se si ha il 100 per 100 di invalidità; qualora venga riconosciuta una invalidità dal 74 al 99 per cento, la presentazione economica fornita non è rubricata come pensione di invalidità civile ma come assegno mensile, il cui importo è… uguale a quello della pensione! (Andrea Ciattaglia)

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