Scrivo di Fausto Coppi a cento anni dalla sua nascita dopo aver letto tutta una serie di servizi giornalistici sulla ricorrenza, la maggior parte dei quali mi sono parsi il sintomo più palpapile della crisi del nostro sistema informativo: un collage di luoghi comuni sul Campionissimo altrimenti detto l’Airone, dai polmoni possenti e dal cuore eccezionale, con 34 battiti a riposo ogni minuto, ho letto in un servizio pensato per impressionare e basta il lettore; più intelligentemente “sotto i 40”, ho visto in altro articolo. A giustificazione degli autori va detto che nessuno ha conosciuto Coppi e ha potuto seguirne le gesta. Così, quasi nessuno (ci sta perché non ho letto tutto ciò che si è scritto su di lui nelle scorse settimane) si è posto la questione della sua fine a 40 anni compiuti da pochi mesi, due volte banalmente tragica: Coppi morì di malaria, come si sa, il 2 gennaio 1960. Si sa anche, ma un po’ meno, che la moglie del campione francese Raphael Geminiani, compagno di viaggio del povero Fausto nell’allora Alto Volta (oggi Burkina) per una gara dimostrativa, chiamò Villa Coppi, a Novi Ligure, per avvertire che il marito, di ritorno dall’Africa, era stato colpito da una febbre fortissima e che il medico condotto del loro paese con il buon senso aveva identificato la malaria e lo aveva curato con successo ricorrendo al chinino.
Ne scrivo perché la vigilia di Natale 1959 mio papà mi portò a casa di Coppi che mi aveva promesso una biciclettina da corsa con il suo nome sulla canna. La casa era una villa sul rettilineo che da Novi porta verso Tortona. C’ero già stato, più volte: il cancello, un giardino attorno alla strada d’accesso in ghiaietto alla villa, elegante nella sua semplicità. Quella sera eravamo i soli ospiti, mio padre e io, che non avevo ancora 9 anni. Fui accompagnato al primo piano e fatto entrare nella camera da letto di Coppi: una grande stanza, una coperta di pelliccia stesa sul letto, Fausto si sporse in avanti sorridendo e mi disse: «Vedi Albertino, anch’io mi prendo l’influenza». È un ricordo fra i più nitidi della mia vita. Come quelli di famiglia dei momenti più felici e drammatici.
Ne scrivo perché Coppi era convinto di essere stato colpito da una banale influenza, rassicurato dal medico che l’aveva visitato. Non fu lui a parlare con la moglie di Geminiani. Me lo riferì papà molto tempo dopo, al termine della mia lunga adolescenza, quando cominciai a collaborare a Stampa Sera come cronista sportivo. Mi disse che la Dama Bianca gliene aveva parlato in quei giorni – non so se la stessa sera della vigilia di Natale o quelle successive – aggiungendo che non si poteva dare retta a dei campagnoli quando i “nostri professori” sostenevano il contrario. Probabilmente lo sfogo – perché di sfogo si trattò – della compagna di Coppi fu più colorito perché il suo lessico era decisamente colorito per quei tempi, oggi rientrerebbe nella normalità. La Dama Bianca era un autentico personaggio e lo sarebbe tuttora. È noto che sfidò la morale pubblica e le leggi dello Stato italiano finendo in carcere per bigamia per entrare a pieno titolo nel ruolo di nuova moglie del Campionissimo e madre del suo secondo figlio. Con gli occhi e l’attenzione di un bambino, di lei mi colpivano i gesti eclatanti, tipo andare a tutta velocità sull’Aurelia e mostrare le corna ad automobilisti che non le cedevano la precedenza, che le spettasse o no. Anni dopo, quando vidi nel Sorpasso di Dino Risi un incommensurabile Vittorio Gassman ripeterne il gesto con la medesima spavalderia, pensai che la Dama Bianca era il modello originale. E comunque sono sempre stato convinto che avesse fegato: il coraggio di chi sfida la vita in continuazione.
Per esempio, fra i miei piccoli ricordi personali, trovo significativo quello di lei, venutaci a trovare con il figlio Faustino a Celle Piani, frazione di Celle Ligure; volle subito cementarsi con lo sci nautico nonostante sapesse appena nuotare. I gestori dei Bagni Lido – li rammento con il loro nomignoli, Cicin e Bacicin – si affrettarono a metterle a disposizione un motoscafo Riva, l’attrezzatura per lo sci sull’acqua e un salvagente adatto. Lei cadde e ricadde, ma dopo ore di quel su e giù incerto davanti alla spiaggia, sia pure a una certa distanza da riva e dagli occhi sgranati di tanti, imparò a tenersi in equilibrio sfrecciando su un elemento che doveva esserle ostile.
La Dama Bianca – cosiddetta perché ai campionati del mondo del 1953, vinti da Coppi, comparve improvvisamente al suo fianco vestita di bianco da capo a piedi – era una donna estremamente determinata. Non c’è bisogno che lo dica io. Ma, siccome era assai invisa all’entourage di Coppi, dopo la morte di Fausto si disse che lui si accingeva a lasciarla. Adesso che ho quasi 70 anni e capisco qualcosina di più della vita, penso che la Dama Bianca fosse una donna che non si potesse lasciare. Semmai, era lei a lasciare un uomo, come aveva fatto con il marito, medico condotto di un piccolo centro lombardo, per correre dietro a Coppi. Era l’esatto opposto di Bruna, la moglie di Fausto. Probabilmente lui se ne innamorò attratto dalla diversità della Dama Bianca rispetto alla consumata routine matrimoniale.
Fausto Coppi non è solo morto a 40 anni per via di quella fatale tragica sottovalutazione di un evento che un medico condotto francese aveva intuito. È morto da corridore in attività. E non come un Federer che viaggia verso la stessa età da tennista professionista per il piacere di giocare, vincere e raccogliere sponsor e euro/dollari a palate. Fausto Coppi, in sella a quell’età, era un’eccezione. Ed era stanco e logoro. Aveva vinto tanto e nella maniera del più forte, con distacchi che evocavano storie omeriche adattate allo sport. Su strade polverose, i tubolari di scorta da portarsi appresso, pedalando su biciclette pesantissime rispetto alle attuali. E, a guardarne bene i filmati d’epoca, saliva più veloce degli altri curvo sul manubrio. Ma se si ci concentra sul viso si può notarne la fatica. Coppi aveva visitato l’inferno per sé – ogni volta che si era infortunato gravemente – e per la morte di Serse, il fratello più giovane di quattro anni, vincitore di una Parigi-Roubaix e caduto battendo il capo sull’asfalto di corso Casale a Torino, a poche centinaia di metri dall’ingresso del Motovelodromo dove si concludeva il Giro del Piemonte del 1951 come altre volte. Il ciclismo era (e resta) fatica. L’immensa storia ciclistica di Fausto Coppi – se non l’avesse fermato la guerra dopo il primo successo al Giro d’Italia avrebbe vinto ancora di più – fu segnata dalla sua classe e dalla fatica.
L’ultimo successo di Fausto Coppi risale al 1957: Trofeo Baracchi, prestigiosa cronometro a coppie che aveva vinto tre volte con Filippi, da trascinatore. Quell’ultima volta fu lui a essere trascinato alla vittoria dal giovane e fortissimo Ercole Baldini. Coppi continuava a correre per necessità: la necessità di mantenere lo stile di vita della sua nuova famiglia. Lo scrisse con chiarezza nel 1958, sul Giorno, Gianni Brera, suo coetaneo, anche lui un campionissimo, del giornalismo sportivo. Ho letto quel magistrale articolo molti anni dopo. Il senso era profetico: Il mio povero Fausto è già morto. Seppi da mio papà che Brera, mai incline a girare intorno alle questioni spinose, aveva chiesto un’intervista a Coppi e che Fausto, temendone i giudizi e, prim’ancora le domande, chiese a papà di essere presente.
L’intervista avvenne a Villa Coppi e la Dama Bianca ci mise del suo disponendo che alcuni, fra i più fedeli gregari di Fausto, indossassero livree da camerieri per impressionare a dovere il giornalista in visita. L’insolito scenario, con tutta la pompa magna che fu montata intorno, fu colto da Brera come un segno della prigionia di Coppi in un’esistenza che era lontana dalla sua signorile semplicità. E naturalmente vide lungo. Lo sfregio più grave che sia stato fatto al Campionissimo è averlo costretto ad arrancare in scia a giovani campioni come Anquetil, che avevano la metà dei suoi anni e tutta una vita sportiva da inseguire. Così Fausto Coppi è morto di malaria non diagnosticata e facilmente diagnosticabile, praticamente ancora in bici in un’età che allora si sarebbe detta di mezzo, in cui uno sportivo professionista passa a fare altro. Che avrebbe fatto Coppi? Sarebbe andato a caccia, sua grande passione, e sarebbe invecchiato come il suo eterno rivale, Ginettone Bartali. E avrebbe continuato ad attraversare la vita con levità.
Una volta, un atleta che aveva collezionato record su record mi disse: «Se sono in mezzo agli altri non provo nemmeno uno scattino. Un ragazzino mi scatterebbe a sua volta in faccia per poi vantarsene». Mi si stringe il cuore a pensare che uno dei più grandi campioni sportivi di ogni tempo abbia avuto invece un tramonto agonistico così. E sia andato davanti alla morte vera per una malintesa banale influenza. Ma forse, come scrisse Brera, Coppi non aveva scampo seguendo il suo destino di uomo perbene e timido. Ed è questa sua fragilità a farcelo sentire vicino nel tempo.