Tanto brave da apparire di moda. Dopo il successo di misura per 2-1 sull’Australia (n. 6 nel ranking mondiale) tutta l’Italia ha scoperto la bellezza del calcio femminile. Flirt effimero o amore duraturo?
Certo, la riapparizione sullo scenario mondiale dopo venti anni di assenza è un evento paragonabile solo alla palingenesi del basket maschile che riassapora il traguardo iridato dopo 13 lunghe stagioni. Calcio femminile da prima pagina sul più importante quotidiano sportivo, riviste femminile in avanscoperta di un mondo finora ghettizzato per la componente omosessuale di alcune sue praticanti, dirette televisive su Sky e Rai: spazi impensabili solo fino a due anni fa.
Ora che l’omofobia è quasi neutralizzata e gli outing nello sport femminile quasi pura banalità (tra gli ultimi quello della migliore pallavolista azzurra, Paola Egonu) l’onda è favorevole anche se tra le ragazze azzurre si fa fatica a individuare qualche vero personaggio rispetto ai miti e alle bomber di qualche generazione fa, quando il calcio femminile era disciplina negletta. Non è più tempo di Morace (tecnico giubilato dal Milan), di Vignotto o di Panico, ma semmai della capitana Gama, della Bonansea (detta per assonanza “il nuovo Boninsegna), la centrocampista che ha segnato una doppietta all’Australia.
Le ragazze, un magnifico coagulante collettivo, ora dicono in coro: “Innamoratevi di noi”. Cercano di cavalcare l’onda senza per il momento chiedere una perequazione con gli stipendi maschili. Anche perché finora c’è un insuperabile scoglio procedurale. Le calciatrici sono formalmente dilettanti e quindi vivono ufficialmente di puri rimborsi-spese anche se questa è la loro unica attività per sopravvivere. Contraddizione cogente riscontrata anche a livello olimpico dove convivono un Federer (tennis) e un giocatore di pallamano, magari assistito dal reddito di cittadinanza. La media dei compensi percepiti dalle ragazze azzurre vira sui 30.000 euro (lordi) annui.
La scossa è arrivata dalla Federazione che ora è chiamata a risolvere questa contraddizione. Liberatasi di Tavecchio e dei suoi schemi mentali (la donna trattata come una sportiva di rango inferiore) la Federcalcio ha dato il via alla decisa apertura delle sezioni femminili, emanazione dei grandi club. Dunque ha contribuito ad alimentare un campionato combattuto tra Juventus, Milan, Roma, contaminando il tifo maschile con quello femminile, dando la stura a stadi più importanti e a una platea decisamente ampliata. Di qui il salto di qualità del tesseramento.
Il calcio femminile ha vissuto per troppi anni con un serbatoio di 10.000 tesserate, insufficiente per alimentare una nazionale competitiva. E i tecnici che si sono avvicendati sulla panchina azzurra troppo spesso hanno vissuto come un ripiego e un contentino la missione senza avere una didattica specifica per un football tecnicamente e strategicamente diverso da quello maschile in cui avevano militato (Cabrini, un esempio per tutti). Ora le tesserate sono 23.000, un numero incomparabile con Germania e Norvegia ma l’inversione di tendenza c’è stata e il rinnovato entusiasmo per la partecipazione ai mondiali è una leva formidabile. Non c’è ancora un rapporto equilibrato con gli agonisti maschile anche considerando che la quota cosiddetta rosa all’interno di tutto lo sport viaggia su percentuali dell’ordine del 30% con la sola pallavolo maggioritaria (più tesserate donne).
Non c’è da farsi illusioni. Né per i risultati nei mondiali (in un certo senso indipendenti dal futuro del movimento) né per l’onda mediatica che presto si spegnerà. Le ragazze azzurre non sono fenomeni e non si fanno illusioni. Vogliono semplicemente uscire dalla favola bella da raccontare ma effimera ed entrare in una realtà concreta fatta di risultati, calendari ampliati, progressi economici, riconoscimenti. Intanto il traguardo maturo è stato raggiunto. Loro i mondiali li giocano, a differenza dei loro omologhi al maschile, professionisti sì, ma incapaci di tagliare il nastro del traguardo più prestigioso, anche solo a livello partecipativo.