La Corte costituzionale e il diritto di morire

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Uscite le motivazioni dell’ordinanza pronunciata dalla Corte costituzionale nel caso Cappato è, ora, possibile soffermarsi sul merito di una vicenda che, come già altre in passato, è destinata a costituire un momento centrale di riflessione sui temi del fine vita.

I fatti sono noti: Fabiano Antoniani, meglio conosciuto come Dj Fabo, rimasto, in seguito a un incidente avvenuto nel giugno 2014, tetraplegico e non autonomo nella respirazione e nell’alimentazione, dopo infruttuosi ricoveri e tentativi riabilitativi, a partire dalla primavera del 2016, comunica ai suoi familiari di non voler continuare a vivere. Tramite la sua fidanzata prende contatto con l’organizzazione svizzera “Dignitas”, con l’associazione “Luca Coscioni” e, quindi, con Marco Cappato. È quest’ultimo a fornire a Dj Fabo le informazioni necessarie per espletare le pratiche con la “Dignitas” e ad accompagnarlo presso la struttura dove, nel febbraio 2017, è sottoposto a suicidio assistito.

Si apre, quindi, nei confronti di Cappato, che al suo ritorno in Italia decide di autodenunciarsi, un procedimento di fronte alla Corte d’assise di Milano che, il 14 febbraio 2018, solleva una questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale.

I giudici milanesi dubitano della compatibilità di questo articolo con la nostra Carta fondamentale secondo un duplice profilo. In primo luogo quello secondo cui non è giustificabile la persistente rilevanza penale dell’aiuto al suicidio, in quanto, nel nostro ordinamento, esiste un diritto di morire, quale più piena espressione dell’autodeterminazione del singolo rispetto alla propria vita. In secondo luogo quello secondo cui è irragionevole sanzionare in egual modo, peraltro estremamente severo (da 5 a 12 anni di carcere), condotte tra loro molto diverse: chi istiga una persona a suicidarsi, infatti, soggiace al medesimo trattamento sanzionatorio di chi presti un mero aiuto materiale a chi, come Dj Fabo, aveva già maturato in piena coscienza la volontà di porre fine alla propria esistenza.

Sono questioni, come evidente, che vanno molto oltre quella della punibilità, nel caso concreto, della condotta di Marco Cappato. Qualora, infatti, la Corte d’assise di Milano avesse semplicemente (e giustamente) voluto mandare esente Cappato da qualsivoglia responsabilità penale, si sarebbe potuta limitare a interpretare l’art. 580 del codice penale come già era stato fatto in casi del tutto analoghi [Tribunale di Vicenza, 14 ottobre 2015 e Corte d’appello di Venezia, 10 maggio 2017], in cui i giudici avevano stabilito che non è punibile l’azione di chi si limiti ad accompagnare in auto, fino a una struttura per il suicidio assistito in Svizzera, chi desidera porre fine alla propria esistenza.

Sollevando la questione, questa vicenda ha assunto tutta un’altra portata.

La pronuncia della Corte costituzionale, che, invero, nulla decide, ma semplicemente rinvia la trattazione della causa di un anno, va, infatti, molto oltre.

In primo luogo, nell’ordinanza della Corte non si può rinvenire, come auspicato dai giudici milanesi, alcun riconoscimento dell’esistenza di un diritto di morire nel nostro ordinamento. Sul punto, la chiusura è netta: affermano i giudici costituzionali che «al legislatore non possa ritenersi inibito […] di vietare condotte che spianino la strada a scelte suicide, in nome di una concezione astratta dell’autonomia individuale che ignora le condizioni concrete di disagio o di abbandono nelle quali, spesso, simili decisioni vengono concepite». Non può dubitarsi, si legge ancora, che l’art. 580 codice penale «sia funzionale alla protezione di interessi meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento». L’aiuto al suicidio (anche, quindi, nella forma di suicidio assistito che qui interessa) rimane penalmente rilevante e ciò è del tutto conforme a Costituzione.

Negata, pertanto, l’esistenza di un diritto di morire, l’attenzione della Corte si sofferma sui fatti e sulle singole condotte illecite: essa prende atto dell’esistenza di casi difficili a cui è doveroso riconnettere, salvo il rischio di incorrere in profili di incostituzionalità, spazi di non punibilità. La Corte li individua in quelle situazioni di persone affette da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche assolutamente intollerabili, che siano tenute in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, pur restando capaci di prendere decisioni libere e consapevoli. Quelle indicate non sono altro che le circostanze già previste dalla legge n. 219 del 2017 (in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), che permette di revocare il consenso a qualsiasi trattamento terapeutico, comprese respirazione, idratazione e alimentazione artificiali: una volta che il malato esprima un dissenso consapevole e informato rispetto a una cura a cui non vuole più essere sottoposto, secondo la legge citata – che recepisce princìpi già definiti a livello giurisprudenziale –, sorge in capo al personale sanitario un preciso obbligo, quello di interrompere la terapia, lasciando che la patologia faccia il suo corso, anche, eventualmente, laddove ciò determini la morte del paziente.

Questo è successo nei casi di Piergiorgio Welby, di Eluana Englaro e di Walter Piludu. Questo sarebbe potuto accadere a Dj Fabo, che avrebbe potuto legittimamente chiedere, dopo essere stato sedato, che gli venisse staccato il respiratore. Tuttavia, Dj Fabo ha preferito ricorrere al suicidio assistito.

Sussiste, in questi casi, un’identità fattuale tra chi chiede di essere lasciato morire (senza la presenza ingombrante, magari perché futile e senza speranza, di presidi terapeutici e clinici) e chi chiede di essere aiutato a morire. Fatto e conseguenze sono le medesime. Nel primo caso, però, siamo di fronte all’esercizio di un diritto con chiaro fondamento costituzionale; nel secondo, a un reato. E questo non è giustificabile.

In tali vicende, osserva la Corte, se «il cardinale rilievo del valore della vita non esclude l’obbligo di rispettare la decisione del malato di porre fine alla propria esistenza tramite l’interruzione di trattamenti sanitari – anche quando ciò richieda una condotta attiva, almeno sul piano naturalistico, da parte di terzi […] – diventa irragionevole che quello stesso medesimo valore debba tradursi in un ostacolo assoluto, penalmente presidiato, all’accoglimento della richiesta del malato di un aiuto che valga a sottrarlo al decorso più lento – contrario alla propria idea di morte dignitosa – conseguente all’ interruzione dei presidi di sostegno vitale». Nella dinamica dei rapporti concreti, in questi casi, si deve valorizzare la garanzia della libertà di autodeterminazione del singolo rispetto alla mera tutela dell’esistenza.

Su questi aspetti e solo su questi aspetti – peraltro limitati, in modo particolarmente restrittivo, al solo caso di chi sia sottoposto a presidi salva vita – la Corte costituzionale chiama il Parlamento a pronunciarsi, lo mette in mora, gli concede un anno di tempo affinché, nell’esercizio della discrezionalità che gli è e gli deve essere propria, si pronunci ed effettui quei bilanciamenti che essa, nel rispetto delle sue prerogative, non può fare. Il rischio di vuoti di tutela può, in situazioni così delicate, essere evitato solo con una legge.

Cosa succederà, però, tra un anno quando, con ogni probabilità, ci si renderà conto che il legislatore nulla ha fatto?

Gli autori

Francesca Paruzzo

Francesca Paruzzo è dottoressa di ricerca in Diritti e Istituzioni presso l'Università degli Studi di Torino e avvocato.

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