L’ordine patriarcale e la libertà delle donne

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La notte del 4 ottobre il Consiglio comunale di Verona ha approvato una mozione con l’obiettivo di finanziare e sostenere associazioni che promuovono iniziative contro l’aborto. Il documento, presentato dalla Lega e sottoscritto dal sindaco Federico Sboarina, proclama, tra l’altro, Verona «città della vita». Lunedì 22 ottobre, il Consiglio comunale di Roma ha pensato di rispondere positivamente al possibile effetto contagio della mossa veronese, mettendo in discussione una mozione dai toni e contenuti molto simili.

Colpisce il valore simbolico di queste iniziative, promosse e sostenute nel quarantesimo anniversario della legge 194 del 1978 sull’interruzione volontaria di gravidanza. Una buona legge che prevede attivazione di servizi, consultori, educazione alla sessualità, ma identificata ideologicamente e svuotata dall’eccezione, tutta italiana, dell’obiezione di coscienza. In Italia, è bene ricordarlo, solo 390 su 654 strutture dotate di reparti di ostetricia e ginecologia effettuano interruzioni di gravidanza: tra queste, solo una minima parte garantiscono entrambi i tipi di aborto, quello prima del 90° giorno (volontario) e quello dopo il 90° giorno (terapeutico); non solo aumentano gli obiettori ma diminuiscono i non obiettori, per cui diminuiscono gli aborti fatti in ospedale, cioè in applicazione della 194 e in sicurezza (si veda: Aborto. La 194, una legge tradita).

Il contenuto oscurantista della mozione veronese è evidente nel linguaggio, nel riferimento alle «uccisioni nascoste» portate dalle pratiche abortive, nello scenario apocalittico che mette in relazione la popolazione di sei milioni di bambini (non nati) con l’insorgenza della crisi demografica, nel richiamare – neanche tanto implicitamente – le donne al loro dovere di generatrici, nel tentare di mettere in conflitto “madre” e “nascituro”.

Fa riflettere anche la costruzione del documento. La mozione, infatti, riprende alcuni obiettivi della legge 194 per dichiararli «disattesi» e decretare «fallimentare» l’intero impianto della legge. Per dare forza a questa conclusione, e muovere verso i propri obiettivi, gli estensori non hanno esitato a fare un uso arbitrario dei dati, facendo balzare agli occhi di chi legge cifre allarmistiche e non comprovate (come mostra l’articolo di Elisabetta Tarquini, La legge e il corpo delle donne: la mozione del consiglio comunale di Verona del 27 settembre 2018, recentemente pubblicato su questionegiustizia.it). All’esito di questa costruzione l’impegno è molto chiaro: «un congruo finanziamento ad associazioni e progetti [come] Gemma, Chiara e Culla segreta». I primi sono progetti nati in ambito cattolico (Gemma è costituto nel 1994 dalla Fondazione Vita Nova, Chiara è dell’associazione cattolica veronese Centro Diocesano Aiuto Vita) che hanno come obiettivo quello di difendere «la vita nascente» attraverso il sostegno alla maternità (con adozioni a distanza e aiuti economici) e la prevenzione dell’aborto volontario. Il progetto Culla Segreta, di impianto regionale, duplica di fatto una possibilità prevista dalla legge (art. 30, commi 1 e 2 decreto Presidente della Repubblica n. 396 del 2000) che prevede il «parto in anonimato» per le donne che decidono di dare il proprio figlio in adozione al momento della nascita scegliendo di non dichiarare il proprio nome ma di dare copertura e tutela giuridica al bambino.

Per collocare meglio il senso della mozione e rendersi conto delle reali intenzioni degli amministratori di “Verona, città della vita”, è bene ricordare che un altro dei passaggi previsti era quello di istituire un cimitero per i bambini non nati, cioè la sepoltura automatica dei feti abortiti, anche contro la volontà delle donne coinvolte. Fortunatamente la maggioranza non è riuscita a tradurre questa intenzione in uno dei punti all’ordine del giorno, pur avendoci provato nel Consiglio comunale del 26 luglio (mozione 441).

È un bene che la notizia dell’iniziativa veronese sia circolata in rete accompagnata dalla foto che immortala l’azione delle attiviste di “Nonunadimeno” che hanno protestato silenziosamente, assistendo al voto vestite come le ancelle della serie tv Handsmaid’s Tale. La serie, tratta dal romanzo distopico di Margareth Atwood, racconta una società governata da estremisti cattolici dove le donne perdono ogni diritto e vengono usate solo a scopo procreativo. La capacità delle attiviste di intervenire, attraverso un gioco di immaginario, in questo tentativo di riportare indietro le lancette della storia fa tirare un sospiro di sollievo e rimette un po’ di ordine in quello che sta succedendo. I corpi delle attiviste avvolti in mantelli rossi e con copricapi bianchi, raccontano della capacità di elaborare e restituire come una messa in scena l’operato degli amministratori veronesi, affaticati nel lavoro di restaurazione di un ordine simbolico che alle donne di oggi, tutte, non può apparire che distopico.

Quello che perseguono queste mozioni, muovendosi nello spazio pubblico, non è fare una battaglia di valori intorno alla “vita” (pur citatissima) ma rimettere in discussione una conquista recente della modernità, quella della libertà femminile. Una libertà che non si esaurisce in ciò che qui si cerca di negare (l’autodeterminazione, la capacità di scelta, la responsabilità), ma che ha una dimensione più grande, irrinunciabile (e non per questo meno fragile): quella di saper dire di sé, di essere interamente soggetto.

L’immagine delle “donne in gravidanza” riportata dalla mozione o presente nelle parole degli amministratori veronesi che sostanziano l’operato delle associazioni chiamate in soccorso della “difesa della maternità” non è quella di donne alle prese con la propria vita, pur in difficoltà. Quel che emerge è l’immagine di una donna, al singolare (!), che non sa scegliere, che deve essere difesa da se stessa, dalla decisione che potrebbe prendere, pur non essendo sufficientemente informata dei propri diritti, di cure prenatali o di possibili alternative all’aborto. Una donna “abbandonata quando avrebbe bisogno di aiuto”.

C’è in questa immagine la nostalgia di un vecchio mondo, più simile alla repubblica di Galaad immaginata da Atwood che a quello in cui viviamo. Che l’ordine patriarcale, superandosi, avrebbe fatto patire al mondo la sua agonia (I. Strazzeri, Post-patriarcato. L’agonia di un ordine simbolico, 2014) e che questa agonia si sarebbe espressa in una serie di contraccolpi, lo stiamo vedendo proprio a partire da questi attacchi, dalla loro natura globale, dal loro presentarsi in forme molto simili ai quattro angoli del pianeta, lontano e dentro l’Occidente. Se negli Stati Uniti le politiche di Trump cercano il consenso della destra ultraconservatrice anche attraverso la lotta ai diritti delle donne in materia riproduttiva, con il tentativo – bocciato dal Senato – di far passare una legge che avrebbe reso l’aborto illegale dopo la ventesima settimana, e tagliando i fondi alle associazioni e alle strutture sanitarie che mettono al centro la salute delle donne, in Europa negli ultimi anni si è assistito alla ripresa di un protagonismo femminile, anche di piazza, proprio in seguito ai tentativi di alcuni Governi di far passare leggi restrittive (Giorgia Serughetti e Cecilia d’Elia, Libere tutte. Dall’aborto al velo, donne del nuovo millennio, 2017). È accaduto in Spagna, dove nel 2014 il movimento Yo decido, grazie a una grandissima mobilitazione, ha impedito al governo Rajoy di limitare la possibilità di ricorso all’aborto ai soli casi di stupro, malformazione del feto o gravi rischi fisici e psicologici della madre. E accade in Polonia dove, a partire dalla protesta del 2016, che ha fermato un primo tentativo del governo ultraconservatore di vietare l’aborto anche in caso di stupro o gravi malformazioni o di pericolo di vita per la madre (le uniche situazioni in cui in quel Paese è permesso interrompere una gravidanza), il movimento delle donne ha continuato a portare in piazza fiumi di ombrelli neri, diventati simbolo della protesta.

L’autodeterminazione delle donne in materia riproduttiva e la maternità come scelta libera e responsabile sono materia di una contesa che si ripresenta continuamente e in modi tali da impedire al discorso pubblico di assorbire la ricchezza della riflessione femminista e di tornare a parlare di questi temi come se non si fosse mai fatto. È questo, forse, il dato più inquietante: il ricominciare da capo, il ritornare agli inizi, il riprendere con veemenza il filo del discorso che si ostina a non misurarsi con il taglio femminista, con quel cambiare senso alla storia che deriva dal riconoscere la pluralità e non l’unicità dei soggetti in gioco. Carla Lonzi parlava non a caso delle donne come “soggetti imprevisti”, soggetti che quando hanno preso parola hanno scosso le fondamenta di un sistema di potere basato sulla loro esclusione. E invece è proprio questo il terreno di scontro: limitare i diritti, cancellare la presa di parola, tornare all’esclusione delle donne come di tutti gli altri soggetti che è possibile lasciare fuori, escludere, non accreditare.

È importante però non perdere di vista la natura fantasmatica e antistorica di questi attacchi, il loro volersi imporre su una libertà femminile che è già circolante, irriducibile all’antica oppressione se non sotto forma di utopia negativa da Golden Globe. Ha ragione Ida Dominjianni (Il trucco. Sessualità e biopolitica nella fine di Berlusconi, 2014) quando, ragionando su temi che potrebbero indurre a pensare che la dinamica fra i sessi si gioca secondo assi immutabili in giochi di potere che non cambiano di segno, ribadisce che «la nuova configurazione del conflitto fra i sessi si gioca prevalentemente non più sul terreno dell’oppressione ma su quello della libertà».

Gli autori

Sandra Burchi

Sandra Burchi è assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Pisa. Scrive di donne, lavoro, femminismo. È autrice di “Ripartire da casa. Lavori e reti dallo spazio domestico” (Franco Angeli, 2014) e con Teresa di Martino di “Come un paesaggio. Pensieri e pratiche tra lavoro e non lavoro” (Iacobelli, 2013).

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