Come ha scritto Marco Revelli («Contro la nube nera un pensiero largo»), un’onda nera sta montando nel nostro Paese e più in generale in Europa, e monta con una rapidità di cui forse non abbiamo ancora piena consapevolezza. È l’onda delle varie Leghe europee.
Il vero è che sono venuti meno gli anticorpi un po’ ovunque, anche laddove ancora si pensava esistessero, pronti a costituire un baluardo, a creare delle resistenze. Oggigiorno almeno un quarto degli svedesi appoggia il partito di estrema destra (I democratici svedesi). E ovunque, nel quieto Nord, i partiti nazionalisti – da I veri finlandesi, al Partito norvegese del futuro, al Partito danese del popolo – sono diventati partiti di governo o condizionano pesantemente le politiche dei partiti tradizionali.
Eppure, se torniamo indietro con la memoria all’Europa sotto il tallone della violenza nazista, scopriamo che qua e là gli anticorpi ci sono stati. Li ritroviamo, ad esempio, in quei rarissimi episodi di resistenza collettiva, non organizzata, al fascismo e al nazismo da parte di gente comune. Di persone come noi. Episodi che hanno avuto successo quando, apparentemente, ogni resistenza sembrava impossibile A sommessa riprova – per dirla con le parole di Havel (ll potere dei senza potere, Castelvecchi, 2013) – che anche “i senza potere” un potere ce l’hanno. E la memoria va a due salvataggi: della quasi totalità della comunità ebraica da parte della popolazione in una Danimarca occupata dai nazisti, e di molti spagnoli antifascisti ed ebrei francesi grazie al coraggio e alla determinazione degli abitanti del villaggio Le Chambon sur Lignon, quando il maresciallo Pétain si impegnò con Hitler ad arrestare e a deportare in Germania tutti i rifugiati.
Oggi non viviamo quel clima, ma è sensazione profonda che qualora una minoranza minacciata nella sua esistenza chiedesse il nostro aiuto, noi non sapremmo rispondere. Ché quegli anticorpi sembrano essere venuti meno, e non da oggi.
Erano i valori della cittadinanza, della solidarietà, della tolleranza, del riconoscimento dell’Altro. Erano loro che avevano reso possibili quelle azioni e che oggi purtroppo, se ancora espressi nel linguaggio attraverso il quale in quella stagione venivano formulati, suonano vuoti, retorici. Pare che non sia più con quelle parole che possiamo mobilitare moltitudini di “nuovi salvatori”. Onde l’invito pressante a ricercare, per riprendere ancora le parole di Marco Revelli, «un nuovo linguaggio, una nuova forma di pensiero: un pensiero non omologato, non ripetitivo del recente passato» (corsivo mio).
Certo, se interrogassimo Foucault, ci direbbe che una ricerca di questo tipo è destinata a fallire perché: «le nozioni di natura umana, giustizia, realizzazione dell’essenza umana si sono costituite all’interno della nostra civiltà, del nostro tipo di sapere, nella nostra filosofia e, di conseguenza, fanno parte del nostro sistema di classe e [dunque] non possiamo, per quanto si possa rammaricarsene, far uso di questi termini per descrivere o giustificare una lotta che dovrebbe – in linea di principio – rovesciare le stesse fondamenta della società» (N. Chomsky e M. Foucault, Della natura umana. Invariante biologico e potere politico, DeriveApprodi, 2005, pp. 70-71).
Ma noi siamo ottimisti, o meglio, possiamo provare a cercare “altrove”. Vale a dire nella quasi infinita varietà delle prassi attraverso le quali i vecchi valori possano prendere nuovamente vita. Emblematici in tal senso sono le esperienze di Riace, non per caso oggi criminalizzata («L’arresto di Mimmo Lucano: il mondo al contrario»), e del bar Hobbit di Ventimiglia («Ventimiglia: il bar Hobbit deve vivere»). È lì, su quel terreno, che forse deve partire la ricerca degli anticorpi.
A ben vedere, quando, a proposito delle esperienze danesi e francesi citate in precedenza, ci siamo interrogati sulle ragioni ultime di quelle azioni, le persone intervistate, alla domanda «Perché l’avete fatto?», o si sono dimostrate palesemente irritate (la domanda per loro non aveva senso) o hanno risposto dicendo che non lo sapevano. La risposta più frequente era: «Ma è ovvio che quando qualcuno chiede aiuto, non ci si può rifiutare». «È così che è giusto fare», taluni aggiungevano. Insomma loro si comportavano così perché in quel contesto sociale era una pratica naturale (nel senso che non aveva bisogno di spiegazioni) agire in quel modo. La loro scelta era sicuramente in linea con un sistema di valori, ma prima ancora con ciò che gli altri facevano, praticavano appunto. In linea con ciò che veniva praticato in situazioni da cui proveniva una richiesta di aiuto.
In tal senso e retrospettivamente, è stato fuorviante interpretare quelle esperienze, spiegare quei comportamenti limitandosi a porre l’accento, come dicevo più sopra, sui valori della cittadinanza, della solidarietà, del riconoscimento dell’Altro, invece di risalire, nella catena esplicativa, alle prassi, ai comportamenti concreti che li avevano formati. Perché è anche su questo fronte, delle pratiche appunto, soprattutto se condivise, che può partire, come argine alla nera onda montante, un progetto di ricostituzione di un tessuto sociale logorato. Così logorato da dover dar oggi ragione a Margaret Thatcher quando affermava che la società non è nient’altro che un insieme di individui.
Qui non si tratta, ovviamente, di fare un “lista della spesa”. L’importante è che l’obiettivo e l’impegno comuni siano appunto la ricostituzione del tessuto sociale lacerato ovunque se ne offra la possibilità, dai bar agli oratori, dalle scuole alle fabbriche, alle piazze, alle chiese. E sono benvenute le disobbedienze e la creatività.
Così taluni potrebbero ispirarsi all’ortolano di Havel che, stufo di rispettare le direttive del Partito, e di porre ogni giorno tra i suoi ortaggi il cartello con su scritto «proletari di tutto il mondo unitevi», decide di buttarlo via, dando luogo in tal modo a una serie a catena di comportamenti simili. Altri, magari, con animo burlone, qualora ritenessero che le macchine di polizia del ministro degli interni stazionano troppo frequentemente nelle nostre piazze, potrebbero prendere esempio dai ragazzi danesi ai tempi dell’occupazione nazista, e scriverci sopra: «In vendita».
Tutto giusto. Ma noi siamo in uno Stato di Diritto, nel quale la legge è “valore”, non opportunità trascurabile ogni volta lo si ritenga opportuno per il “bene degli ultimi”. Meglio proporre qualche nuova legge più compiuta e più rispondente ai valori e ai bisogni di umanità di ogni persona. In questo quadro, il Decreto Salvini potrebbe essere dichiarato incostituzionale perché pone una problema generale, “la sicurezza”, quale realtà attinente una sola categoria di persone, alle quali, inoltre, rende ancora più difficile farsi “cittadini” di uno Stato di Diritto.
Questa realtà non si matura riducendo l’istituto del matrimonio a “mezzo” per un fine a esso estraneo…
La coerenza tra mezzi e fini è uno principi fondamentali dello Stato di Diritto. Disattenderlo, significa ridurre lo Stato a sola realtà “di potere”, non più “di diritto”.
Tutto diventa più faticoso, ma i democratici non possono alterare i fondamenti della democrazia, a meno che non vogliano legalizzare “la dittatura della maggioranza”, come sta avvenendo in molti Stati, in Europa e nel mondo.