La pubblicità è l’architrave su cui il gioco d’azzardo di Stato ha costruito la propria fortuna, facilitata da provvedimenti che addirittura obbligano i concessionari a devolvere una piccola percentuale dei propri investimenti su questo fondamentale fattore di crescita. Da tempo, peraltro, le richieste di vietare quel tipo di pubblicità si moltiplicano. Un primo passo in quella direzione è stato fatto con la legge stabilità 2016 ed è consistito nel vietarla sulle televisioni generaliste. Ma l’embargo fino alle 22 era un ostacolo risibile considerando che, con gli sforamenti di orario, il prime time scatta alle 21.45 circa.
Ora il “decreto dignità” approvato dal Consiglio dei ministri prevede «il divieto di qualsiasi forma di pubblicità, anche indiretta, relativa a giochi e scommesse con vincite di denaro». Dal 1 gennaio 2019, poi, il divieto sarà esteso a «sponsorizzazioni di eventi, attività, manifestazioni, prodotti e servizi e a tutte le forme di comunicazione e di contenuto promozionale».
Il mondo del calcio si è indignato, ha reagito furiosamente a tale “minaccia” e proverà a far modificare il decreto prima dell’approvazione definitiva in aula. Intanto è riuscito a salvare per un anno i contratti in essere, evitando la cancellazione ex abrupto dei circa 200 milioni in ballo garantiti dai contratti vigenti.
Ma – ci chiediamo – dov’erano le squadre di calcio quando l’azzardo, nel periodo 1993-2018, ha arruolato un numero di connazionali compreso tra le 300.000 e le 500.000 unità, definiti affetti da gioco d’azzardo patologico (GAP)? Continuavano a fare i loro affari, il famigerato business, indossando la maglia di un broker delle scommesse, addirittura intestando un campionato di serie B a uno sponsor unico di questa classificazione. E, sul piano individuale, pubblicizzando la pratica dell’azzardo con soggetti come Totti, Buffon, Miccoli, a disposizione per questo mercimonio omologamente ai personaggi del mondo dello spettacolo come Bisio o più recentemente Amendola, sull’esempio di campioni del passato come Altafini e Mazzola. E dov’erano quando la Federcalcio firmava un accordo di sponsorizzazione con Intralot, poi rinnegato per una sorta di sollevazione popolare, costringendo il presidente Tavecchio, per gli ovvi riflessi negativi di opinione pubblica, a versare 1,5 milioni di euro in beneficenza?
Dovremo essere noi a indignarci oggi per la “loro indignazione” di fronte alla minaccia del divieto di pubblicità che taglia le gambe a contratti, affari più o meno legali, interessanti partnership con l’industria dell’azzardo. Se il Paese ha attraversato la crisi economica del 2007-2008 e non riesce a recuperare il PIL di un decennio fa, in questo campo gli affari sono proliferati secondo una logica esponenziale di crescita del mercato. Gli italiani hanno investito sul cattivo affare dell’azzardo ben 103 miliardi nel 2017 lasciandone nelle casse dello Stato 10, mentre altri 7 miliardi di perdite sono stati incassati dalla filiera del gioco d’azzardo.
Il divieto di pubblicità in fieri rappresenterebbe un fiero colpo ai progetti di ulteriore espansione, a scapito della salute degli italiani. Mentre la drammatizzazione sul provvedimento sembra paragonabile alla difesa complessiva della relativa industria che, secondo una vulgata, «darebbe lavoro a 140.00 italiani», omettendo di sottolineare che in questa promiscua legione, in gran parte di fresco arruolamento, ben 90.000 soggetti sono baristi o tabaccai che a ben altra funzione commerciale si dedicavano prima della massiccia adozione di slot, di gratta e vinci, di giochi virtuali.
Ballano cifre e previsioni catastrofiche: impossibilità di iscriversi ai campionati, perdita di credibilità del sistema, impari confronto con quanto avviene all’estero. Il tutto avvalora la tesi, sostenuta anche del prof. Maurizio Fiasco, che l’azzardo sia una gigantesca bolla economica che si fonda su presupposti labili e facilmente contrastabili.
A fronte di ciò è bene ricordare che la Costituzione, nei suoi princìpi fondamentali difende la salute degli italiani. Ora, molte indagini empiriche hanno mostrato che tanto più l’azzardo investe sulla pubblicità tanto più l’erario incassa dall’operazione. Ma il terzo vaso comunicante dimostra l’aumento in pari misura di patologie di dipendenza compulsiva.
Eppure l’azzardo è contrastabile. La Juventus, quando ha giocato in Polonia, ha dovuto spogliarsi della maglia sociale abbinata a una sigla d’azzardo perché in quel Paese la pubblicità di genere è vietata da tempo. L’Italia invece è la terra dei prodigi in materia se le società di betting negli ultimi dieci anni hanno investito in sponsorizzazioni ben 633 milioni di euro.
In queste ore le lobby sono in azione. Per dare un’idea della forza di queste macchine da guerra che possono ampiamente condizionare il Parlamento (si vedano i casi Fini, La Boccetta, Milanese) ricordiamo che nel 2015 Lottomatica, in un solo semestre, ha speso 270 milioni alla voce “sponsorizzazioni, pubblicità e marketing”. Senza dimenticare che nel mondo dell’azzardo galleggiano criminalità, mafie, usura e, nel recinto del calcio, il fenomeno endemico delle partite truccate, l’anglosassone match fixing.
L’indignazione del mondo del calcio dovrebbe essere diretta su ben altri preoccupanti versanti.