Calcio: campioni di razza

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Djalma Pereira Dias dos Santos, uno dei più grandi terzini di tutti i tempi (nazionale brasiliano e campione del mondo negli anni Cinquanta e Sessanta) sognava, da piccolo, di diventare un pilota d’aerei. Tuttavia mancavano i soldi per iscriverlo a una scuola di volo e così il giovane Djalma iniziò a lavorare come calzolaio mentre nel fine settimana dava sfogo all’altra sua passione, quella per il calcio. Se lo chiamavano il “difensore gentiluomo”, non è solamente perché nella sua lunghissima carriera non è mai stato espulso dal campo. È anche, e soprattutto, per episodi come quello accaduto in uno stadio di San Paolo. Dagli spalti piovevano su di lui insulti razzisti. Mentre si accingeva a effettuare una rimessa laterale qualcuno gli urlò «sporco negro» e gli tirò addosso qualcosa ma, allo stesso tempo, perse il suo anello, che finì in campo. Djalma Santos lo raccolse con tutta calma, si avvicinò all’uomo, glielo consegnò e sorridente gli stampò in faccia un «tutto bene».

Il vero nome di Pelé, forse il più grande calciatore di tutti i tempi, è Edson Arantes do Nascimento. Non appena arrivato al Santos nel 1956, ancora adolescente, Edson venne chiamato Gasolina (benzina) da diversi giocatori bianchi della squadra. Il nomignolo deriva dal colore della sostanza che viene dal petrolio, nero come la pelle del nuovo arrivato. La stampa di San Paolo preferì chiamarlo Pelé, un soprannome coniato durante la sua infanzia a Bauru. Crioulo è il termine che più apparve sui giornali nel 1960 in riferimento al campionissimo brasiliano. La parola era usata in modo affettuoso, anche se il suo uso espone a un discorso razzista che definisce socialmente una persona per il colore della sua pelle. Quando la Nazionale brasiliana vinse il suo primo titolo mondiale, Pelé fu il protagonista di una storia sulla rivista Cruzeiro, in cui veniva confrontato con la figura folcloristica di Saci Perere. Nella stessa rivista un articolo che descriveva l’arrivo dei giocatori brasiliani provenienti dalla Svezia diceva che un bambino biondo fosse stupito della presenza nera di Pelé e nel sentirgli dire qualcosa esclamò: «Mamma, mamma, parla». Pelé veniva così paragonato a un animale la cui capacità di parlare era una sorpresa. In una recente intervista rilasciata al quotidiano brasiliano Uol Esporte, Pelé ha sostenuto che il razzismo si combatte con l’indifferenza: «Ai miei tempi, gli insulti c’erano, ma non c’era quella preoccupazione di oggi. Non sono tifosi normali, ma gente malata che va allo stadio solo per offendere. Il grande problema è che si dà attenzione a questi pazzi che non sono tifosi ma banditi. Sfortunatamente, noi in Brasile abbiamo il razzismo contro i giapponesi, i neri, i grassi. Se avessi dovuto litigare per tutte le volte che mi hanno chiamato «macaco» e «negro» negli Stati uniti, in Europa, in America Latina o in Brasile, avrei dovuto mettere sotto giudizio mezzo mondo».

Nel 2014, Dani Alves, difensore esterno del Barça, dinanzi al lancio di una banana (simbolo per eccellenza della discriminazione verso le persone di colore) a opera dei tifosi del Villareal, non fece una piega, la sbucciò, osservò e ingoiò in un sol boccone, continuando a giocare. Il gesto di Dani Alves divenne subito un messaggio mondiale contro il razzismo. «Se tutti facessero come Dani ‒ ha sostenuto Pelé ‒ nessuno farebbe più nulla. Il problema è che viene data troppa attenzione a questi sciocchi che affollano le tribune, qui non si tratta di tifosi ma di delinquenti». Un semplice gesto può essere a suo modo rivoluzionario.

Lilian Thuram è stato un difensore di statura mondiale, annoverato fra i migliori nella storia del calcio. Nel corso della sua carriera, iniziata nel 1991 al Monaco e proseguita tra Parma, Juventus e Barcellona, ha conquistato numerosi titoli sia a livello nazionale che internazionale, tra cui due scudetti con la maglia bianconera e una Coppa Uefa con quella gialloblù. Primatista assoluto di presenze con la maglia della Nazionale francese, con la quale vanta 14 anni di militanza, 142 presenze e 2 gol, si laureò campione del mondo nel 1998 e campione d’Europa nel 2000. Ma Thuram non è stato solo un grande giocatore e ha contribuito in modo militante a promuovere l’integrazione, sul piano sociale, contro ogni forma di discriminazione e di razzismo. È in Francia, dove si trasferisce all’età di 9 anni, che Lilian, nato in Guadalupa, scopre la questione del razzismo. Perché «è stato al mio arrivo a Parigi che sono diventato nero». Prima non si era mai posto il problema. Ma a Parigi il colore della pelle è causa di stigmatizzazione. Tuttavia, sottolinea Thuram, «non si nasce razzisti, lo si diventa». Il razzismo è una costruzione sociale che si trasmette di generazione in generazione. Fino a divenire «un’abitudine, un riflesso inconscio». Il calcio, nella visione di Thuram, serve a spezzare quest’abitudine, questo pregiudizio dato per scontato. Perché «dopo la scuola, il campo è il luogo più importante dove si educano i figli». Il calcio è anche uno spazio pubblico, un teatro che permette di comunicare valori in modo «esemplare». Thuram ha denunciato apertamente l’intolleranza, come quando giocava nel Parma: «Durante una partita contro il Milan, sento i tifosi cantare Ibrahim Ba mangia banane sotto casa di Weah”. Nel dopopartita, ho criticato l’insulto razzista. La domenica successiva i tifosi rispondono con uno striscione “Thuram rispettaci!”. Il mondo all’incontrario. Invece di riflettere su quello che avevo detto, si erano sentiti loro offesi».

Il testo è tratto dal volume di Lorenzo Gherpelli Che razza di calcio (Edizioni Gruppo Abele, 2018)

Gli autori

Lamberto Gherpelli

Lamberto Gherpelli, osservatore e studioso del mondo calcistico, ha militato nella prima metà degli anni Settanta nelle giovanili della Reggiana. Ha scritto per il Guerin Sportivo e per Il Resto del Carlino di Reggio Emilia. Autore versatile e multiforme, ha pubblicato, in tema di sport, Qualcuno corre troppo. Il lato oscuro del calcio (2015) e Che razza di calcio (2018).

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