Le squadre di calcio hanno, oltre al colore, simboli, blasoni e animali corrispondenti, come Zebra, Grifone, Toro, Lupa, Biscione, Aquila, Diavolo.
In Brasile l’urubu, uccello rapace simile al condor, nero e magro, caratterizza il Flamengo di Garrincha, Júnior e Zico; la balena, il Santos di Pelè e Neymar; il timone oppure l’uomo portoghese grasso e coi baffi, il Vasco de Gama di Romário; la polvere di riso, prodotto superfluo ed elitario, il Fluminense di Didí e Gerson; il moschettiere, simbolo di coraggio, audacia e spirito di combattività, il Corinthians di Rivelino, Sócrates e Ronaldo. La tifoseria di questi club è fortemente caratterizzata: la torcida corinthiana e del Santos è prevalentemente composta da neri e mulatti; quella del Vasco raccoglie la maggioranza dei discendenti portoghesi di Rio de Janeiro; il Fluminense è la squadra chic della città carioca e alcuni calciatori e persino tifosi di pelle scura usavano cospargersi il viso e il corpo di polvere bianca per nascondere la loro negritudine. Il Vasco de Gama, che pure continua a essere il club dei portoghesi, è quello che aveva e ha il maggior numero di tifosi nella popolazione nera, a causa della sua pionieristica apertura ai giocatori di colore. Il club di Rio è infatti conosciuto come quello delle Camisas Negras per essere stata la prima squadra, fra il 1923 e il 1924, ad ammettere calciatori neri fra le proprie file. Per questo si scontrò con la Federcalcio di allora che chiese l’esclusione di questi giocatori, ma il Vasco rispose arrivando a schierarne, riserve comprese, fino a dodici. Nel 2013 la squadra ha presentato la sua nuova maglia, che ha una caratteristica particolare: è stata concepita come simbolo della lotta al razzismo. In passato aveva, teoricamente come terza divisa in realtà come maglia da usare nei match più importanti, una casacca nera con stampata sul petto una mano aperta mezza bianca e mezza nera con sotto una scritta: «rispetto ed uguaglianza». Sul collo, con bordo bianco, compariva invece: «democrazia e integrazione». Il Vasco, con i suoi giocatori neri e meticci, fu il primo club carioca a organizzare una tournée in Europa. Nell’estate 1931, cioè sei anni dopo il Paulistano di Friedenreich, il Vasco, rinforzato da giocatori del Botafogo e del Fluminense, sbarcò in Spagna e Portogallo, dove giocò 12 partite, ottenendo 8 vittorie, 3 sconfitte e un pareggio, realizzando 45 gol e subendone 18. Tra i calciatori più rappresentativi c’era il portiere mulatto Jaguaré, classe 1900, uno dei più grandi del footbol brasiliano, specialista nelle parate con una sola mano. L’allora presidente del Vasco ed ex bomber della Nazionale, Roberto Dinamite, ha significativamente affermato: «Sono orgoglioso di far parte di un club che tanto ha fatto per l’integrazione razziale nel suo Paese. In Brasile si stava dando continuità a un processo molto importante. Il Vasco e la sua dirigenza hanno sempre cercato di favorire l’uguaglianza e di lottare contro il razzismo. Senza tutto questo, forse le porte per il miglior giocatore della storia del calcio, Pelé, sarebbero ancora chiuse».
Il calcio per gli olandesi è stato il luogo in cui Olocausto e vita quotidiana si sono incontrati. Durante l’occupazione nazista la zona grigia di complicità e collaborazione fu più estesa di quanto non si pensi. Le Stelle di Davide che sventolano allo stadio De Meer di Amsterdam sono la testimonianza involontaria, ma significativa, di una realtà storica che fino a non molto tempo fa è stata negata. Negli anni Trenta l’Ajax era la squadra più amata dagli ebrei di Amsterdam. Passava dal ghetto la storia che portava venditori di stoffe e mercanti di diamanti, insieme ai figli e nipoti, a tifare per la squadra della buona borghesia cittadina. Negli anni Sessanta furono degli ebrei scampati alla Shoah, e diventati benestanti come l’ex presidente dei biancorossi Van Praag, a investire nel club e a farlo diventare, agli inizi degli anni Settanta, la squadra più forte del mondo. Così molti dei suoi calciatori vennero considerati ebrei anche se non lo erano. Oggi se i tifosi dell’Ajax ostentano fieri il legame con l’ebraismo, gli avversari lo usano come una clava. Il peggio lo fanno i tifosi del Feyenoord, squadra di Rotterdam e rivale storica dei joden, gli ebrei, come vengono chiamate la tifoseria e la squadra dell’Ajax. All’ingresso in campo dell’Ajax, ogni volta che si gioca allo stadio De Kuip (tempio del Feyenoord), i tifosi locali emettono un fischio acutissimo. L’idea è quella di riprodurre il sibilo delle camere a gas. La stessa cosa accade quando l’Ajax affronta la squadra dello Ado Den Haag, altri acerrimi rivali. Nel 1999 alla festa dello scudetto il terzino del Feyenoord, Ulrich Van Gobbel, urlò otto volte al microfono: «Chi non salta un ebreo è» e al coro partecipò il capitano della squadra, Van Gastel. Questo e altri episodi di antisemitismo spinsero, nel 2005, la dirigenza dell’Ajax a prendere posizione con i loro supporter: basta simboli e riferimenti all’ebraismo. Quando Johan Cruijff venne colpito da un tumore ai polmoni, il 25 ottobre del 2015, uno striscione con l’acronimo Jhk («Joden Hebben Kanker» ovvero «Gli ebrei hanno il cancro») venne esposto allo stadio di Arnhem nel corso della partita di campionato fra Vitesse e Ajax provocando un vero e proprio choc e una coda di furiose polemiche in Olanda. Lo scugnizzo di Betondorp (quartiere di Amsterdam, dove l’ex pallone d’oro è nato all’ombra dello stadio dell’Ajax), il più grande numero 14 della storia, uno dei migliori calciatori di ogni tempo, pur non essendo di religione ebraica, venne accostato agli ebrei in quanto uomo-simbolo dell’Ajax, la cosiddetta «squadra del ghetto».
Il testo è tratto dal libro Che razza di calcio (Edizioni Gruppo Abele, 2018)