Il giuramento del presidente del Consiglio Conte (e dei suoi tutor Salvini e Di Maio) impone anche al dibattito pubblico su giustizia penale e carcere di misurarsi con quanto scritto in proposito nel “Contratto per il governo del cambiamento”.
Partiamo da una frase sintomatica, che condensa il succo del programma:«riscrivere la cd. riforma dell’ordinamento penitenziario per garantire la certezza della pena per chi delinque e la maggior tutela della sicurezza dei cittadini».
Si tratta dell’ennesima e illusoria riattivazione dello scambio tra sicurezza (di pochi) e carcere (di molti). È facile, infatti, inscrivere nell’orbita di questo paradigma tutti gli obiettivi del programma di governo: la costruzione di nuove carceri, il piano straordinario di assunzioni di polizia penitenziaria, la revisione restrittiva dei modelli detentivi basati sulla sorveglianza dinamica e sul regime penitenziario aperto, la rivisitazione sistematica e organica (leggi: restrizione) delle misure premiali; senza tralasciare, naturalmente, la revisione delle linee guida sull’art. 41bisper restituire effettivo rigore al carcere duro. Certezza della pena, dunque, ma intesa nel senso regressivo di immutabilità e inalterabilità della pena carceraria: a tanti anni di condanna scritti nella sentenza devono corrispondere, salvo rare eccezioni, tanti anni passati a sfogliare i tramonti in prigione.
È la stessa terminologia del Contratto a rivelare il carattere controriformatore del disegno: la riduzione linguisitica delle alternative al carcere a misure premiali testimonia in maniera plastica la sfiducia nel sistema di esecuzione penale basato sul diritto al reinserimento sociale e palesa la scelta di imboccare una strada distante dalla previsione dell’art. 27 della Costituzione. Non va dimenticato – se la Costituzione la si vuol difendere nella sua interezza – che questo articolo utilizza il sostantivo plurale pene e impone al legislatore ordinario di non schiacciare la penalità sul penitenziario. Il Contratto, al contrario, sembra ridare fiato a un’ideologia neo-autoritaria (annidata anche in parte della magistratura) che vede nella rieducazione dell’autore di reato un escamotage per sfuggire al castigo e nelle concessioni della magistratura di sorveglianza l’auto-inganno di una magistratura pietistica e incapace di puntare lo sguardo sul volto delle vittime.
A fare da pendant a quest’idea salvifica della galera, si colloca (paragrafo 12, parte dedicata a: “Area penale, procedura penale e difesa sempre legittima”) il progetto di espansione dell’area del penalmente rilevante, scandito dai seguenti obiettivi: eliminazione dei provvedimenti di abrogazione e depenalizzazione dei reati lievi; aumento delle pene per i fatti di maggior allarme sociale; ampliamento della repressione e dell’incarcerazione dei minori che delinquono; riduzione della praticabilità dei riti alternativi per alcuni reati gravi.
In conclusione: più reati, più pena, più carcere.
Sorprende che un programma soi-disant “del cambiamento” rifiuti di confrontarsi con l’inutilità e la pericolosità del gigantismo del diritto e del processo penale e con i costi economici, umani e sociali di un carcere che, chiuso a ogni prospettiva di apertura e responsabilizzazione dei detenuti, può produrre soltanto recidiva. La clamorosa assenza di ogni proposta di soluzioni progredite, altrove sperimentate con successo (una seria ed efficace giustizia riparativa, programmi di prevenzione, misure di intervento sociale, diversificazione delle sanzioni e delle strategie repressive), stride con quello che accade e viene constato nel mondo, a tutte le latitudini.
Persino nel Paese che ha espresso il punto di vista dominante nel campo dell’ideologia securitaria, gli Stati Uniti, il circolo vizioso della overcriminalization è sottoposto a serrata critica. Uno studio recente della Rand Corporation (ente di ricerca nato con il finanziamento del Dipartimento della Difesa statunitense, non sospettabile di cedimenti ideologici) ha calcolato che investire centocinquantamila dollari in programmi di lavoro e misure alternative per cento ipotetici detenuti comporta un risparmio di un milione di dollari in tre anni sui costi legati alla recidiva e alla re-incarcerazione, fenomeni che puntualmente si verificano in ordinamenti basati sulla teoria della neutralizzazione e della pura espulsione del reo dal contesto sociale.
Incurante di tutto ciò, il pensiero corto che anima il programma di governo sembra ispirato alla spenta teoria del gioco a somma zero: per promettere incrementi di sicurezza e di livello di benessere a una parte della società è necessario che un’altra parte, quella colpevole, perda il diritto al riconoscimento della possibilità, degli strumenti e delle risorse per (ri)costruire dignità e identità.
È la stessa teoria sottesa ai tanti pacchetti sicurezza succedutisi nel tempo e, da ultimo, al decreto Minniti in materia di sicurezza delle città: l’idea, tutta di destra, che per dare a qualcuno occorre togliere ad altri.
Non importa se tale prospettiva, alla prova dei fatti, si risolva in abbaglio e se a guadagnare (poco) siano pochi e a perdere (molto) siano molti. Nulla di male, poi, se i perdenti (gli incarcerati, i respinti, i sanzionati) sono sempre più spesso quelli che si trovano ai margini del perimetro sociale e che hanno già pagato a caro prezzo la demolizione del welfare. Aumentare i tassi di incarcerazione non significherà altro che sanzionare ancora di più la perifericità sociale e ogni analisi sulla composizione sociale del carcere lo conferma. La leva penale, da strumento di promozione di una convivenza pacifica basata sulla tutela dei diritti fondamentali e sulla rimozione dei rapporti di forza, contribuirà ancora di più a sanzionare le differenze e a perpetuare lo scandalo della disuguaglianza, senza aggiungere nulla in termini di sicurezza. Una giustizia dalla parte dei forti, del resto, si palesa già dall’omaggio al principio di inviolabilità della proprietà privata collocato all’inizio del paragrafo del Contratto dedicato all’area penale.
Viene da chiedersi con quali misure di finanza un programma del genere verrà messo in piedi. Con i proventi di una tassa, la flat tax, che toglie di più a chi ha di meno?
È bene avere chiaro da subito, infatti, che costruire nuove prigioni richiede tempo e denaro. Tale sforzo non viene ripagato né dal punto di vista della diminuzione del sovraffollamento (California docet), né dal punto di vista dell’incremento della sicurezza. Se il carcere rimane (e si vuole che sia) un luogo per custodire corpi, senza una coltivabile prospettiva risocializzante, è in grado soltanto di produrre riserve di vittimizzazione e di intolleranza pronte a immettersi nella società a ogni scarcerazione e in Italia, ogni mese, sono circa tremila i detenuti che lasciano la prigione. In una società dove tutto (o molto) diventa penale, inoltre, non bastano investimenti ingenti in agenzie di polizia e magistratura per rispondere con tempestività ed efficacia al numero crescente di illeciti. L’area dell’impunità e dell’ineffettività della sanzione tende inevitabilmente ad ampliarsi, con conseguente consolidamento dei processi criminogenetici – tutto il contrario della deterrenza – e aumento della rabbia sociale diffusa.
Un’ultima considerazione, infine, deve essere fatta. Il programma del neoformato governo M5S-Lega arriva nel momento di stallo e definitivo tramonto della riforma penitenziaria scaturita dalla riflessione degli Stati generali e dall’iniziativa del ministro Orlando. Non era la migliore delle riforme, ma in relazione ai tempi che corrono era un successo, anche dal punto di vista della tutela dei diritti delle vittime. La rinuncia del Partito democratico a esercitare la delega prima delle elezioni del 4 marzo è il segno di una sinistra arresa, anche in questo campo, a irritanti tendenze di mimetismo della destra.