Il ministro Nordio e il populismo penale

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Si definisce off label l’impiego nella pratica clinica di farmaci usati per indicazioni terapeutiche diverse rispetto a quelle per le quali sono stati prodotti e autorizzati. A questa eterogenesi dei fini ci è venuto di pensare quando abbiamo sentito il ministro Nordio ammettere che certo, come lui ha sempre sostenuto e come risulta da tutta una serie di analisi storico-filosofiche, «la severità della pena non ha efficacia di deterrenza, ma può servire come segnale politico». Ad esempio – precisa – «nessuno si illude che aumentando di uno o due anni le pene per gli scafisti il fenomeno possa essere interrotto, ma ha un significato di attenzione politica, significa che la politica, in questo caso il Governo, è particolarmente attento a combattere questo fenomeno pernicioso che è il traffico di esseri umani, e una di queste manifestazioni è appunto la legge penale che viene inasprita; è un segnale politico, più che di intimidazione giudiziaria». In sostanza, il ministro, con apprezzabile trasparenza, ammette che il Governo intende usare la medicina penale non come risposta alla patologia del reato, ma per finalità che non le sarebbero proprie.

Si tratta di strada non percorribile, neppure restando nell’incauto accostamento metaforico che ne abbiamo proposto. L’impiego dei farmaci off label, infatti, deve avvenire nell’interesse del malato ed essere assistito da talune cautele fondamentali: sicurezza per il paziente, consenso informato e responsabilità del medico. Nel nostro caso l’eccesso di rigore punitivo è nell’interesse del “medico” e a danno del “paziente”. La sola idea che alcuni soggetti scontino anni in più di privazione della libertà affinché sia chiara la forte riprovazione dell’esecutivo nei confronti di alcune forme di delinquenza suscita un irrefrenabile trasalimento etico. Beninteso, non si tratta di sbandamenti inediti della politica penale: anche nel passato si è pensato di esibire una muscolarità sanzionatoria (es. sequestro di persona a scopo di estorsione, furti in abitazione o con strappo, omicidio stradale) per ostentare assoluta intransigenza nei confronti di tipologie di reato particolarmente diffuse e generatrici di allarme sociale. Non mi sembra sia mai accaduto, però, che l’improprio obbiettivo si palesasse in modo così esplicito e venisse perseguito con tanta sistematicità. E si ha ragione di temere che questa forma di populismo penale non sarà più praticata solo quando la collettività avrà acquisito la consapevolezza che introdurre una nuova ipotesi di reato o aumentare un numero in una disposizione del codice penale non è una dimostrazione di forza, ma di impotenza. Uno Stato davvero forte è quello che ha meno necessità di ricorrere alla punizione perché ha predisposto le condizioni economiche, amministrative, sociali e culturali che riducono la necessità, l’interesse e la possibilità di delinquere.

Queste folate punitiviste legate alla devianza o alla criminalità à la page, oltre che sicuramente inutili, come correttamente riconosce lo stesso ministro, sono altrettanto sicuramente dannose per il sistema: viene aggravata la risposta sanzionatoria per un reato che in un certo periodo, spesso anche per l’enfasi dei media che funzionano da specchi ustori, determina insicurezza sociale; poi, una volta passata la recrudescenza del fenomeno o, più di frequente, una volta distolto dallo stesso il riflettore mediatico, resta nel sistema questa ipertrofia punitiva che crea scompensi e irragionevoli disparità. Emblematico il caso del sequestro di persona a scopo di estorsione. Come ha sottolineato la Corte costituzionale (sentenza n. 143 del 2021), «a seguito dell’allarme sociale provocato, negli anni Settanta, da numerosi episodi di sequestro di persona per conseguire il riscatto», il minimo della pena comminata per quel reato è passato da otto a venticinque anni, «risultando essere addirittura più elevato – e non di poco – di quello previsto per l’omicidio volontario (punito, nel minimo, con ventuno anni di reclusione)». Con possibili effetti – aggiungiamo noi – perfino criminogeni.

Sarebbe saggio, dunque, abbandonare al più presto la strada della politica penale off label. Un Governo autorevole, e non vanamente autoritario, non digrigna i denti dello spauracchio sanzionatorio per mandare un segnale, ma – dopo aver compiuto ogni sforzo per prevenirli e contrastarli – si dispone ad affrontare i fenomeni criminali con la composta fermezza dello Stato di diritto.

L’articolo è tratto da Avvenire del 30 aprile

Gli autori

Glauco Giostra

Professore ordinario di Procedura penale presso la Facoltà di Giurisprudenza della Sapienza Università di Roma. È stato membro di diverse commissioni ministeriali per vari interventi legislativi, compresa la commissione per la riforma del codice di procedura penale dal 1987 al 1991 e poi nel 2006. È stato componente laico del Consiglio Superiore della Magistratura, ove ha presieduto la prima Commissione (per le inchieste riguardanti i magistrati) dall’agosto del 2012 all’agosto del 2013. Dal giugno 2013, con decreto del Ministro della Giustizia, è stato nominato presidente prima del gruppo di studio e, successivamente, della commissione di studio per elaborare una proposta d’interventi in tema di ordinamento penitenziario e in particolare di misure alternative alla detenzione. E' componente del Collegio Garante della Costituzionalità delle norme della Repubblica di San Marino.

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