“Non si dicono mai tante bugie come prima delle elezioni, durante una guerra e dopo la caccia”, recita un aforisma di von Bismarck. In ogni conflitto bellico, difatti, la verità rimane ostaggio delle opposte propagande. Sta succedendo anche stavolta: i casi controversi sono più lunghi d’un lenzuolo. Per esempio i 25 civili uccisi il 14 marzo da un missile a Donetsk, mentre russi e ucraini se ne rimpallavano la colpa. O il bombardamento, due giorni dopo, del teatro di Mariupol, su cui le due parti in conflitto hanno offerto versioni contrastanti.
Contemporaneamente, a Mosca, morde la censura. Vengono chiuse tv e radio indipendenti, oscurati i social media, da Facebook a Twitter. Bloccato pure Vpn, il software che permette di connettersi a siti e app vietate. Mentre la Duma approva una legge che punisce con 15 anni di galera chi diffonda “false informazioni” sulle forze armate russe, provocando un esodo di massa delle testate internazionali. E la giornalista Marina Ovsyannikova – che osa inalberare un cartello di denuncia durante il Tg – diventa un’eroina planetaria. Perché è questo il prezzo che reclama il pensiero dominante, quando s’impone con la forza: la trasformazione del dissenso in un atto d’eroismo, nel martirio individuale.
Sennonché la censura, sia pure in forma anemica e senza l’uso di manette, soffia pure alle nostre latitudini. Con una decisione che non ha precedenti, il 28 febbraio il Consiglio europeo ha messo al bando due agenzie d’informazione (Russia Today e Sputnik) controllate dallo Stato russo, inibendone l’accesso in tutto il territorio dell’Unione. A sua volta, l’8 marzo l’Alto rappresentante Ue ha annunciato un nuovo meccanismo per sanzionare “gli attori maligni della disinformazione”. Anche in Europa comincia a farsi largo, insomma, una verità ufficiale, che decide sull’ammissibilità delle notizie; eppure la libertà dei media viene garantita dall’articolo 11 della Carta di Nizza. Ma le garanzie giuridiche valgono ancora mentre sparano i cannoni? E restano sempre valide le regole sull’uso di parole violente, adottate da tutti i social network? Da parte sua, Facebook ha già deciso di permettere le espressioni d’odio contro Russia e Bielorussia: una censura al contrario.
Era altresì censura, sia pure ridicola e bizzarra, quella con cui l’università Bicocca di Milano ha cancellato un corso su Dostoevskij (colpevole d’essere nato a Mosca nel lontano 1821), salvo poi fare retromarcia. O il silenziamento del giornalista Rai Marc Innaro, chiesto a gran voce da vari partiti, avendo mostrato in tv una cartina geografica sull’espansione della Nato. Non è invece censura, bensì isolamento e dannazione pubblica, la fatwa scagliata contro taluni intellettuali, critici verso la narrazione ufficiale degli eventi. Accadde già rispetto al Covid, con Agamben, Cacciari, Mattei. Sta accadendo adesso con Rovelli o Canfora (“Odio di Canfora”, ha titolato il Foglio), con quanti non si schierano né con la Nato né con Putin.
Avranno pure torto, ma la militarizzazione del dibattito è in se stessa un torto. E d’altronde la libertà di parola tutela il dissenso, non già chi canta nel coro. Se le democrazie ricorrono a forme di censura, se pretendono un giuramento di fedeltà dai propri cittadini, significa che stanno adottando i metodi dell’avversario, del nemico. Vincendo forse la guerra, ma perdendo l’anima.
L’articolo è stato pubblicato su Repubblica del 24 marzo 2022 col titolo La guerra delle parole