Raddoppiato in vent’anni il numero di persone che non ha più una casa. E per i profughi la speranza di ritornare è sempre più flebile. Fra i 79,5 milioni di persone in cerca di una nuova casa, un rifugio, un posto lontano dalle bombe e dalla fame c’erano anche loro, il piccolo Alaa e sua mamma. Tentavano di passare il confine fra la provincia siriana di Idlib e la Turchia. Le guardie di frontiera hanno sparato. Lui è morto, un altro ragazzo è rimasto ferito. L’ennesima vittima, dopo la bambina di cinque anni annegata in Libia pochi giorni fa, le migliaia e migliaia che negli anni scorsi non ce l’hanno fatta, in mare, sulle montagne, nelle foreste. L’esercito dei rifugiati nel mondo continua a crescere. Fra il 2018 e il 2019 ha fatto un balzo impressionante, da poco più 70 milioni a quasi 80, un record.
Un abitante della Terra su 97 è in fuga, all’interno del proprio Paese o all’estero, come denuncia l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) nel rapporto Global Trends, pubblicato alla vigilia della Giornata mondiale del rifugiato. I due terzi delle persone in fuga all’estero provengono da cinque Paesi: Siria, Venezuela, Afghanistan, Sud Sudan e Myanmar. Nazioni devastate da guerre civili e crisi ormai decennali.
Lo status di rifugiato si incancrenisce, la speranza di ritornare è sempre più flebile. Soprattutto per i siriani, che da soli assommano 13,2 milioni di rifugiati, richiedenti asilo o sfollati interni, più di metà dell’intera popolazione. Eppure continuano a voler fuggire. L’Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria ha documentato dal 2011 a oggi l’uccisione di 450 civili da parte delle guardie di frontiera turche. Compresi 79 minori e 44 donne. Dopo i 380 mila morti della guerra civile, la distruzione di intere città, adesso sono la crisi economica e le sanzioni a spingerli verso la Turchia, che già ne ospita 3,6 milioni.
È il salto da un inferno a un purgatorio. I siriani in Turchia hanno quasi tutti trovato un’abitazione, soltanto 68 mila sono rimasti nei campi profughi, i buoni pasto finanziati dall’Unione europea in base all’accordo del 2016 permettono di mangiare.
Anche se l’obiettivo finale rimane quello di ritornare a casa, forse un giorno ricostruita. Un obiettivo sempre meno realistico. Negli anni Novanta 1,5 milioni riuscivano a fare ritorno a casa ogni anno. Ora la media è crollata a 385.000. Dei 79,5 milioni di rifugiati nel mondo, 45,7 sono sfollati all’interno dei propri Paesi, mentre degli oltre trenta milioni fuggiti oltre confine in 4,2 milioni hanno fatto domanda di asilo. Il numero di minori in fuga è compreso fra i 30 e i 34 milioni, più elevato di quello dell’intera popolazione di Australia, Danimarca e Mongolia messe assieme. «Siamo testimoni di una realtà nuova che ci dimostra come gli esodi forzati non soltanto siano più diffusi, ma non costituiscano più un fenomeno a breve termine – spiega l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, Filippo Grandi –. Non possiamo aspettarci che le persone vivano per anni e anni una condizione precaria, senza avere né la possibilità di tornare a casa né la speranza di poter cominciare una nuova vita nel luogo in cui si trovano».
Un discorso che vale per i siriani ma anche per i 5,6 milioni di rifugiati palestinesi, in questa condizione da settant’anni, mentre le prospettive di un accordo di pace con Israele si allontanano. E l’agenzia che si occupa di loro, l’Unrwa, è sotto attacco da parte dell’Amministrazione Trump, che ha bloccato i finanziamenti.
Le agenzie dell’ONU si trovano di fronte a crisi sempre più prolungate, i fenomeni esplodono e così i bisogni finanziari. Il numero dei rifugiati è raddoppiato in meno di dieci anni, nel 2010 erano 41 milioni, i fondi per l’Unhcr sono saliti l’anno scorso a 4,8 miliardi di dollari, il massimo di sempre. Ma la differenza fra le risorse necessarie e quelle erogate è salita al 42 per cento. Significa che servirebbero quasi il doppio dei soldi a disposizione. Anche il personale è raddoppiato, da 6 mila a 12.800, per il 44 per cento donne. E un impegno che richiede sacrificio.
L’80 per cento delle persone in difficoltà sono in Paesi colpiti da carestia, malnutrizione, disastri climatici, guerre croniche. L’85 per cento è in Paesi in via di sviluppo e cerca rifugio in Paesi confinanti. Alle guerre senza fine, quella afghana è entrata nel suo quinto decennio, si aggiungono adesso i disastri ambientali. Nel 2019 hanno causato 24,9 milioni di sfollati, un altro record, circa tre volte il numero causato da conflitti e violenze.
Il rapporto dell’Unhcr sottolinea come il cambiamento climatico è destinato essere «una causa crescente» degli sfollamenti, sia in maniera diretta che come «moltiplicatore». La previsione è che i disastri «aumenteranno in frequenza e intensità». Di questo passo le probabilità di arrivare a cento milioni di rifugiati sono molto elevate e l’ONU insiste con gli Stati perché vengano adottate politiche preventive, prima di dover affrontare una crisi sistemica, impossibile da gestire.
In fondo, una delle cause della guerra civile in Siria è stata proprio la siccità anomala, prolungata su più anni, che ha reso la vita impossibile nelle campagne, gonfiato le periferie, aggravato i conflitti sociali e settari fino a farli esplodere. Tutto è legato. I migranti del Sahel in balia del Mediterraneo in tempesta, il piccolo Alaa in cerca di un passaggio sulle montagne. Come dice un proverbio siriano, «siamo tutti assieme nello stesso vento».
L’articolo è tratto da “La Stampa” del 19 giugno 2020