Se, al suo emergere, la pandemia di Covid- 19 è stata descritta come un’influenza – tanto che in molti hanno irriso le misure di distanziamento sociale o hanno gridato all’imposizione dello stato d’eccezione – nel volgere di pochi giorni si è passati a parlare di “medicina di guerra” e di guerra tout court, fino a considerare inevitabile l’introduzione, dapprima in Italia, poi in altri Paesi europei e infine negli Stati Uniti d’America, di protocolli e linee guida che hanno lo scopo di definire chi, in caso di saturazione delle unità di terapia intensiva, ha maggiori requisiti per la presa in cura e chi può e deve essere lasciato morire. Se il precipizio pandemico ha messo in luce straordinarie capacità di responsabilità e abnegazione da parte degli individui, e in particolare del personale medico e sanitario, ha anche rivelato la propensione mai sopita della nostra cultura a dividere tra vite degne e vite di scarto. Ma in base a quali criteri, a quali valori condivisi, una cultura decide quando una morte è preferibile a un’altra?
Nelle “ Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione”, la Società italiana di anestesia e rianimazione ha posto innanzitutto un limite di età all’ingresso alle unità di terapia intensiva. «Non si tratta di compiere scelte meramente di valore, ma di riservare risorse che potrebbero essere scarsissime a chi ha in primis più probabilità di sopravvivenza, e secondariamente a chi può avere più anni di vita salvata, in un’ottica di massimizzazione dei benefici per il maggior numero di persone. È ipotizzabile – continua il documento, redatto in linguaggio tecnico-manageriale – che un decorso relativamente breve in persone sane diventi potenzialmente più lungo e quindi più resource consuming sul servizio sanitario nel caso di pazienti anziani, fragili o con co-morbilità severa». Le “Raccomandazioni di etica clinica” – come i lettori di questo giornale sanno bene – sono state pubblicate il 6 marzo 2020, giorno in cui in Italia, secondo i dati della Protezione civile, i ricoverati con sintomi erano 2.394, quelli in terapia intensiva 462, i morti 197. Dopo un mese, il 6 aprile, mentre da più parti si invocavano “ripartenza” e “riapertura” e cominciava a trapelare lo scandalo degli anziani abbandonati a morire nelle Rsa, i ricoverati con sintomi sarebbero stati 28.976, quelli in terapia intensiva 3.898, i morti 16.523.
In Francia, pochi giorni dopo, il 17 marzo, la Società degli anestesisti e rianimatori pubblicava il documento “Questioni etiche di accesso alla rianimazione e ad altre cure critiche nel contesto della pandemia Covid-19”, in cui, rifacendosi all’esperienza italiana, spiegava che, in caso di saturazione delle unità intensive, i medici potrebbero trovarsi «costretti a operare scelte difficili e a stabilire priorità per quanto riguarda l’accesso alla rianimazione, le limitazioni del trattamento e il sostegno a fine vita». Tra i criteri su cui basare la decisione all’ingresso figurano «età, co-morbilità, stato cognitivo, fragilità, autonomia, stato nutrizionale e ambiente sociale», qualsiasi cosa questo voglia dire. Sempre in Francia, in un documento denominato “Plan Blanc Covid-19”, distribuito il giorno dopo nell’ospedale di Perpignan, si raccomanda agli operatori sanitari di prepararsi, nel caso di saturazione delle strutture, a «non ammettere in rianimazione e nelle unità di terapia intensiva pazienti la cui morte è inevitabile; dare priorità ai pazienti la cui morte è “inaccettabile”; limitare o cessare le terapie attive erogate a pazienti la cui morte è ‘accettabile’ a causa di vecchiaia, gravi polipatologie, demenza, estrema dipendenza». Seguono indicazioni sui criteri in base ai quali riconoscere le morti evitabili, inevitabili, accettabili e inaccettabili. Nel giorno in cui è stato emesso il documento, il 18 marzo, i contagiati in Francia erano poco più di 10mila, le persone in terapia intensiva 1.122, i decessi 372.
In Spagna, quello stesso 18 marzo, le associazioni degli internisti e intensivisti pubblicavano un documento denominato “ Raccomandazioni etiche per assumere decisioni nella situazione eccezionale di crisi rappresentata dalla pandemia di Covid-19 nelle unità di terapia intensiva”, in cui si legge che, tra gli anziani, dovrebbe essere data priorità per il ricovero a quelli con maggiori possibilità di sopravvivenza. In particolare, si deve «tener conto della sopravvivenza libera da disabilità», «valutare attentamente il beneficio di ricovero di pazienti con un’aspettativa di vita inferiore a due anni», «tener conto del valore sociale della persona malata». E il 12 aprile, in Svezia – quando i contagiati erano meno di 11mila, i morti 919 e la vita sociale continuava libera da restrizioni – il Karolinska Institutet (massima autorità scientifica nazionale) annunciava che, nel caso di scarsità di posti in terapia intensiva, «sarà necessario escludere dalle cure le persone dagli 80 anni di età in su, e quelle tra i 60 e 70 anni già colpite da diverse patologie precedenti». Insensibilmente, nel mezzo della “guerra” contro il virus, sono state introdotte discriminazioni che riguardano demenza, disabilità, valore sociale, aspettativa di vita – sia nella selezione attuata in ingresso al triage ospedaliero, sia in quella implicita nel non far giungere agli ospedali le persone ammalate, lasciando i “sacrificabili”, e in particolare gli anziani, morire nelle proprie case o nei ricoveri, quale che sia il tipo di assistenza al quale possono affidarsi.
A dimostrazione di come le categorie siano scivolose e di come inevitabilmente finiscano per articolarsi in gerarchie di valore tra aventi diritto e soccombenti, negli Usa numerosi Stati – come “Avvenire” ha documentato per primo dal nostro lato dell’Atlantico – hanno sviluppato piani che prevedono la possibile morte per abbandono di disabili e persone già affette da altre patologie – che in larga parte risultano essere afrodiscendenti e ispanoamericani, in un Paese dove l’accesso alle cure e la qualità delle prestazioni sono strettamente connessi al reddito e al possesso di un’assicurazione sanitaria. In particolare, le linee guida emanate il 16 marzo dal Dipartimento della salute dello Stato di Washington suggeriscono che al triage non debbano essere accolti pazienti con scarse «riserve di energia, capacità fisiche e cognitive», mentre il Dipartimento della salute dell’Alabama rimanda ai criteri per il triage pubblicati il 9 aprile 2010, in cui si prevede che le persone affette da «severo ritardo mentale, demenza da moderata a grave, grave trauma cranico» non siano considerate «candidati appropriati per la ventilazione meccanica, così come i bambini con gravi problemi neurologici». L’estrema gravità della pandemia, esacerbata dal progressivo smantellamento della sanità pubblica e del welfare a favore della sanità privata for profit – così che in quasi tutti i Paesi occidentali sono stati fortemente ridotti sia i posti letto ospedalieri sia i reparti di terapia intensiva, considerati ad alto costo e, appunto, basso profitto – non ci mette tuttavia in presenza di una morìa che spazza ogni possibilità di tutela dei diritti; non stiamo fronteggiando la peste bubbonica che nel 1348 colpì l’Inghilterra uccidendo circa la metà della popolazione.
Quelle che le istituzioni preposte presentano come raccomandazioni etiche, alle quali gli operatori sanitari spesso si piegano con dolore, rabbia, senso di impotenza, lasciano campo aperto a un “arbitrio” non più “libero” e personale, ma che, articolato come potere impositivo dello Stato, diventa potenzialmente totalitario. In una società fondata sulla razionalità tecnico- scientifica, in cui la politica è sempre più ridotta a mero apparato burocratico, di gestione e di management, la neutralità dei protocolli diventa garanzia di funzionamento della sovranità. «L’espressione ultima della sovranità consiste, in larga misura, nel potere e nella capacità di decidere chi può vivere e chi deve morire», avvertiva il filosofo camerunese Achille Mbembe in Necropolitica. «Uccidere o permettere di vivere definiscono perciò i limiti della sovranità, i suoi attributi fondamentali. Esercitare la sovranità significa esercitare il controllo sulla mortalità e definire la vita come il dispiegarsi e il manifestarsi del potere». Abituati a considerare le epidemie un residuo del passato, patrimonio di Paesi destinatari al più di aiuti e missioni umanitarie, e a temere i patogeni più come possibili armi biologiche che come risposta della natura alla devastazione degli ecosistemi, davanti a un virus che sta impietosamente mettendo in luce la fragilità e la supponenza dell’Occidente siamo rientrati quasi inavvertitamente nella legittimazione della pulsione omicida che giace nel fondo oscuro della nostra cultura. È questo, forse, lo scossone più violento dato alle fondamenta di una società che si è faticosamente risollevata dalle macerie etiche e politiche del Novecento, dimenticando l’abisso a cui ha condotto la presunta competenza su chi scegliere e chi scartare, teorizzata già da Platone nel Libro V della Repubblica e resa sistema dalle applicazioni politiche del darwinismo sociale.
Il diffondersi del coronavirus ci ha mostrato l’abbandono di anziani poveri negli ospizi e la loro morte di massa; di detenuti nelle carceri, dove rivolte sedate nel silenzio hanno causato decessi attribuiti a suicidi per overdose di farmaci; di disabili in strutture sovraffollate, di senzatetto nelle strade, di migranti nei centri per l’espulsione, di rifugiati in lager chiamati campi profughi. Se la pandemia, come tutti gli eventi estremi, può avere una funzione di rivelazione, è quella che ha indicato papa Francesco il 27 marzo, in una metafisica piazza San Pietro sferzata dalla pioggia, impartendo l’indulgenza plenaria ai morituri, ai malati di Covid-19, ai loro familiari, agli operatori sanitari, a tutti coloro che si prendono cura di chi sta male. «È il tempo del nostro giudizio – ha detto, segnando una cesura inaudita anche per i non credenti – il tempo di scegliere che cosa conta e che cosa passa, di separare ciò che è necessario da ciò che non lo è». Il tempo «di trovare il coraggio di aprire spazi dove tutti possano sentirsi chiamati, e permettere nuove forme di ospitalità, di fraternità, di solidarietà».
L’articolo è stato pubblicato su Avvenire del 18 aprile 2020 col titolo Covid-19. Selezione, l’ambiguo confine in nome dell'”etica” clinica.
C’è un momento nel quale società come le nostre possono accorgersi davvero di quanto sia stata introiettata la cultura dello scarto. E’ quando ci s’imbatte in qualche raccolta fondi per ricerca assistenza e cura di malattie o disabilità. Ovviamente, la sensazione è più sistemica quando si tratta di una campagna nazionale o internazionale. Nessuno ha il coraggio di gridare questa oscenissima vergogna collettiva, sentendosi ingiustamente tirchi. E non si dica che è solo un calcolo del mitico Potere. Ancor più irricevibile, che si sfuggano le collette nella certezza (???) di alimentare corruzioni. Siamo noi, noi, che non gridiamo all’ipocrisia! Abbiamo paura di come saremmo considerati in società? Aspettiamo che si lanci una campagna raccolta fondi PERIODICA (non più solo emergenziale) per comprare mascherine e ventilatori, come unica e ultima spiaggia dove ci si deve dirigere tutti senza ammutinamenti?
Si immagini un “alternativo”, che gode di un’ospitata in tv. Si immagini di trovarsi a commentare con Alta (altra?) Politica una crisi come questa. Si immagini che lo stesso conduttore, in altre trasmissioni, sia lanciatissimo in qualche telethon o roba simile. L’alternativo avrebbe il coraggio di rinfacciarglielo come vergogna? O si ritrarrebbe, per paura di offendere chi lo ospita e le orecchie di chi lo ascolta? Quella paura salva una vita, o la minaccia?
La mia idea è che la minaccia. Concretamente. Il quadro è questo: si dice che la sanità pubblica va potenziata per far fronte alle emergenze senza cedere alla scelta dello scarto, con le conoscenze e le tecnologie attuali potenzialmente non c’è alcun limite alle risorse economiche richieste per una sanità che non lasci davvero indietro nessuno, se non bastano i bilanci pubblici dev’esserci la beneficenza. Ma se i bilanci pubblici hanno limiti “monetari”, e ancor più se tali limiti s’innalzano al ritmo del debito (ch’è di tutti gli Stati, non solo della “povera” Italia), allora la beneficenza è sempre più necessaria. Darla per scontata significa dare per scontato il meccanismo del debito monetario. E ogni crisi riduce i benefattori, checchè ne dicano i cantori delle Brave Persone, le quali se non campano cosa donano? Insomma, dando per scontato tutto ciò (senza sbugiardarlo pesantemente e pubblicamente), si finisce col condannare a morte una moltitudine crescente di scarti umani.