Le conclusioni dell’Eurogruppo: anatomia di una capitolazione

image_pdfimage_print

Se non ora quando? Questo devono essersi chiesti tanti sinceri europeisti all’inizio del negoziato iniziato in seno all’Eurogruppo e al Consiglio europeo di fronte al propagarsi dell’epidemia Covid 19 e al manifestarsi delle sue drammatiche conseguenze economiche. Infatti, quale occasione  migliore di un’epidemia che miete vittime nelle società e nelle economie europee per dimostrare concretamente che la solidarietà in Europa non è una chimera?

Incassata, almeno nel breve termine, la copertura da parte della Banca Centrale Europea, l’obiettivo dei governi più esposti alle conseguenze dell’incipiente crisi economica era duplice: evitare le condizionalità del Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) e convincere i partner europei a dotarsi di strumenti idonei ad ottenere le risorse necessarie ad un rilancio dell’economia reale e al rafforzamento dei sistemi sanitari, entrambi provati da un’epidemia di proporzioni inimmaginabili. La posta in gioco erano gli agognati Eurobond, ovvero titoli di debito pubblico emessi dall’Unione, ma nei fatti garantiti congiuntamente dai bilanci degli stati membri. Ebbene, nelle conclusioni dell’incontro dell’Eurogruppo del 9 Aprile scorso, di Eurobond nemmeno si parla, mentre l’unico strumento di cui si chiarisce la portata è il MES. Certo, nel comunicato dell’Eurogruppo si fa un gran parlare di solidarietà. Ma come già in altre stagioni del processo di integrazione europea, la retorica serve perlopiù a dissimulare una realtà molto meno gratificante.

Il comunicato dell’Eurogruppo si compone essenzialmente di due parti. Nella prima si fa lo stato dell’arte degli strumenti già apprestati o in via di attuazione per far fronte alla crisi. Si tratta di un mix di misure statali e di interventi dell’Unione. L’Eurogruppo infatti prende atto delle misure di stimolo all’economia predisposte dai governi e dai parlamenti nazionali per sostenere i sistemi sanitari, le strutture della protezione civile, i lavoratori e le imprese. Si tratta di misure che è possibile adottare in ragione della dell’attivazione della general escape clause del Patto di stabilità (art. 5(1) del reg. 1466/1997) e della sostanziale disattivazione dei limiti all’erogazione di aiuti di stato (punto 8). L’ammontare di questi strumenti è di dimensioni significative, visto che si parla di interventi finanziari pari al 3% del PIL dell’Unione, a cui si aggiungono garanzie e dilazioni fiscali che si stima possano raggiungere il 16% del PIL dell’UE (punti 5 e 6).

Due però sono le osservazioni che si devono fare a questo riguardo. Anzitutto, è bene sottolineare che la sospensione del Patto di Stabilità ha natura temporanea, circostanza questa molto rilevante se si considera che tutte queste misure vanno ad incrementare i disavanzi pubblici e, quindi, a rendere più difficile se non impossibile un rapido rientro all’interno dei parametri macroeconomici vigenti nell’Eurozona. Inoltre, le imponenti dimensioni degli interventi statali non devono ingannare: le risorse a disposizione non sono equamente ripartite all’interno degli stati, ma costituiscono solo la somma delle diverse disponibilità nazionali, sicché è facile prevedere che al termine della crisi le notevoli divergenze già esistenti all’interno dell’Eurozona prima della crisi risulteranno ingigantite (come già successo dopo il varo del’European Economic Recovery Programme nel 2008). Infatti, non solo l’impatto della crisi non è lo stesso in tutti gli stati membri, ma anche il loro margine di azione varia notevolmente: se la Germania, grazie al basso debito pubblico e all’alto surplus commerciale, può permettersi di intervenire con misure incisive, decisamente più limitati sono gli spazi di manovra per stati con alto debito pubblico (Italia) e limitatissimi quelli degli stati con alto debito pubblico e disavanzo esterno (Spagna).

Il comunicato elenca poi alcuni strumenti messi in campo dall’Unione europea. Si fa riferimento alle misure con cui si sono in parte riorientati i fondi strutturali e li si è svincolati dall’obbligo di co-finanziamento da parte degli stati (punto 9). Soprattutto, si richiamano le iniezioni di liquidità alle imprese e i programmi di acquisto di titolo di debito pubblico statali ad opera della BCE, ad oggi probabilmente l’unica misura che consente alle economie degli stati membri di rimanere a galla.

Fin qui lo stato dell’arte; ma che cosa c’è di nuovo? Davvero poco.

Nella seconda parte del comunicato, l’Eurogruppo prevede di mobilitare ulteriori 2.7 miliardi di Euro presenti nel bilancio europeo  per sostenere i sistemi sanitari nazionali (punto 14) attraverso l’attivazione del meccanismo d’assistenza d’emergenza (secondo la proposta già annunciata una settimana fa).

Veniamo quindi alle misure su cui più si era discusso alla vigilia dell’Eurogruppo.

Si crea un fondo di 25 miliardi di Euro, che sarà gestito dalla Banca Europea per gli investimenti (punto 15) e che, secondo le aspettative, dovrebbe permettere di garantire prestiti alle imprese per un valore vicino ai 200 millardi. Certamente si tratta di un importo molto meno simbolico di quello prospettato meno di un mese fa (8 miliardi di prestiti), ma ancora manifestamente insufficiente per l’insieme dell’Unione Europea (si consideri che è quasi quattro volte inferiore alle risorse mobilitate dalla sola Germania).

Il comunicato ha il merito di fare chiarezza riguardo al MES (punto 16), le cui risorse potranno essere attivate a richiesta dei governi nazionali interessati per far fronte alle spese sanitarie relative alla cura e alla prevenzione del Covid 19. In quel caso, ma soltanto in quel caso, la condizionalità si limita al vincolo di destinazione alle spese sanitarie. In più, nulla esclude che i Memoranda of Understanding che saranno siglati inizialmente non possano mutare con il passare del tempo. Quest’ultima eventualità è tutt’altro che teorica; è lo stesso comunicato ad ammettere che, una volta superata l’epidemia, gli stati beneficiari saranno tenuti a conformarsi all’intero complesso delle regole macroeconomiche europee. Questo ultimo è un chiaro segno che siamo ben lontani d’una condizionalità “soffice”.

Un simile ricorso al MES appare alquanto inadeguato in relazione alle reali esigenze emergenti sul fronte sanitario della crisi. Le cronache quotidiane non rappresentano solo una situazione caratterizzata dall’insufficiente finanziamento delle strutture sanitarie. A mancare sono anzitutto i materiali sanitari, difficilmente reperibili sul mercato se non a costi esorbitanti, ed il personale medico-ospedaliero, sulla cui consistenza incidono in misura rilevante le “razionalizzazioni” dell’austerità. Insomma, la decisione fondamentale dell’Eurogruppo a questo riguardo non è quella di un cambio di paradigma rispetto ai mantra della bell’epoque neoliberale, ma l’erogazione di un credito a tasso agevolato assistito da privilegio. Un modo abbastanza curioso per declinare l’idea di solidarietà.

Insomma, al di là delle spese strettamente connesse all’epidemia, nulla cambia nel MES, visto che anche le spese dirette a finanziare l’attuale emergenza economica e la ricostruzione, come si è affrettato a sottolineare il Ministro delle finanze olandese Hoekstra, rimangono soggette ad una condizionalità “dura”.

Difficile intravedere solidarietà anche nel SURE, lo strumento che in teoria dovrebbe contribuire a mitigare l’impatto occupazionale della crisi Covid 19 (punto 17). Come già evidenziato nei primi commenti alla proposta della Commissione, lo strumento in questione ha una capienza molto ridotta (100 miliardi di Euro per tutta l’Unione), ha natura temporanea (cioè circoscritta alla sola epidemia) e, soprattutto, risponde alla stessa logica creditizia del MES. I lavoratori infatti non beneficeranno di uno strumento assicurativo transnazionale che li protegga dal rischio della disoccupazione in una genuina ottica solidaristica. Il SURE si presenta infatti come uno strumento aggiuntivo ai sistemi assicurativi nazionali la cui operatività si basa in parte sul bilancio dell’Unione, in parte su garanzie che gli stati membri dovranno predisporre qualora manifestino il loro interesse. Inoltre, la struttura finanziaria delineata dalla Commissione pone gli stati più indebitati davanti ad un difficile dilemma, dovendo valutare se sia più conveniente il beneficio di tassi di prestito agevolati o il costo delle garanzie richieste.

Infine, il comunicato dell’Eurogruppo accenna in modo abbastanza confuso ad un Recovery Fund (punto 19), ovvero ad un programma temporaneo di sostegno all’economia reale soprattutto per gli stati maggiormente colpiti dalla crisi. Da quel che è dato capire, il finanziamento di questo strumento dovrebbe essere assicurato dal già esiguo bilancio dell’Unione e, in ogni caso, il comunicato non ne stabilisce l’attivazione, ma rinvia la decisione sull’ammontare, la struttura e la tempistica al Consiglio europeo. A tal riguardo, è bene ricordare che il Trattato sul Funzionamento dell’UE non solo impone il pareggio del bilancio sovranazionale (art. 310(1) TFUE), ma richiede anche una decisione unanime del Consiglio per l’aumento delle entrate (art. 311 TFUE). Insomma, la sensazione è che si tratti della classica foglia di fico dietro la quale i fautori degli Eurobond proveranno a dissimulare il loro insuccesso. Un film già visto al tempo dell’unione bancaria, quando alla perdita di controllo nazionale sulla sorveglianza degli istituti creditizi (molto attenuata in alcuni stati membri), non è ancora seguita la predisposizione di un fondo comune per affrontare le crisi bancarie.

Insomma, la montagna europea ha partorito un altro topolino, ed il Consiglio europeo, salvo clamorose sorprese, non potrà che prenderne atto. Di questo, si badi, c’è poco di cui gioire, poiché già prima dell’attuale crisi era evidente come la dotazione finanziaria dell’Unione (un esiguo 1% del PIL) fosse inadeguata rispetto all’ampiezza delle sue competenze. Si sono messi in comune i rischi senza riuscire a dotarsi di una comune struttura assicurativa. Con tutta evidenza, però, manca nei governi europei una volontà politica sufficiente ad operare un deciso cambio di paradigma in direzione di una vera solidarietà tra gli stati ed i cittadini europei. Piuttosto che dissimulare questa realtà, occorrerebbe prenderne pienamente atto ed agire di conseguenza.

Quella dell’Eurogruppo del 9 aprile è una sconfitta, ma non è ancora una disfatta. Più che sperare in un’improbabile attuazione del Recovery Fund, meglio sarebbe prepararsi al momento in cui si verificherà l’ineluttabile escalation. A quel punto ai partner europei andrà posta molto chiaramente l’alternativa tra il completamento della zona Euro, con una banca centrale ed una politica economica comune degne di questo nome, o lo smantellamento coordinato dell’Eurozona, con il conseguente ritorno ad un sistema più flessibile di valute nazionali. Entrambe le opzioni sollevano enormi problemi di ordine economico ed istituzionale: la prima impone la creazione di un circuito di responsabilità politica idoneo a legittimare i trasferimenti di risorse all’interno dell’Eurozona; la seconda richiede di trovare il modo di non gettare il bambino (l’integrazione europea) con l’acqua sporca (la struttura esistente dell’Eurozona).

È probabilmente questa la scelta a cui è chiamata questa generazione; arriverà presto il momento di affrontarla senza nascondersi dietro ad uno status quo che giorno dopo giorno appare sempre più impossibile. 

L’articolo è tratto da lacostituzione.info

Gli autori

Marco Dani

Marco Dani insegna nell’Università di Trento

Augustin Menéndez

Agustin Menéndez nella Universidad Autónoma de Madrid (España)

Guarda gli altri post di: and