Quella sera in piazza Fontana

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Della sera del 12 dicembre 1969, la sera della bomba nella Banca dell’Agricoltura di piazza Fontana a Milano, ricordo la nebbia fitta, la caligine da Malebolge. Allora abitavo in via Bagutta, a quattro passi dalla piazza. Ma il mio studio stava nell’interno e non avevo sentito il fragore dell’esplosione. Mi chiamò al telefono Italo Pietra, il direttore del Giorno: «Vai in piazza Fontana, è scoppiata una bomba in una banca. Vai a vedere poi vieni a scrivere al giornale». C’erano già i cordoni della polizia attorno alla banca, impossibile entrare, ma bastava guardare alla luce dei fari la ressa di autoambulanze, di autopompe per capire che c’era stata una strage, udire le urla dei soccorritori che uscivano con i morti e i feriti sulle barelle. A forza di giocare con il fuoco degli opposti estremismi eravamo entrati in una guerra vera, e già in quella sanguinosa confusione si poteva capire che nel gioco era entrato qualcuno di superiore alle nostre politiche inimicizie. Un potere feroce come una lama rovente squarciava il nostro grigio Stato democristiano, la nostra burocrazia furba e sorniona e li metteva di fronte al fatto compiuto aprendo la tetra stagione che sarà ricordata come “gli anni di piombo”, gli anni del terrorismo.

Anche senza entrare nella banca devastata dalla bomba, non ci voleva molto a capire che quella sera qualcosa era cambiato nella nostra vita, Pietra mi aspettava nel suo ufficio. «Secondo te ‒ mi chiese ‒ chi le ha messe queste bombe?». A bruciapelo risposi: «I servizi segreti impegnati nella guerra fredda, non la polizia dei poveracci che vanno a farsi pestare in piazza dagli scioperanti». «Tu dici?», fece Pietra che conosceva l’arte dell’understatement, e aggiunse: «Mi ha telefonato il prefetto, secondo lui sono stati gli anarchici». Era cominciata l’umiliante operazione di copertura dei veri mandanti dell’eccidio, la serie delle indagini manovrate, dei depistaggi, dall’arresto di Valpreda, denunciato da un tassista, alla morte di Pinelli, precipitato da una finestra della questura. Pietra era amico di Enrico Mattei, conosceva il gioco dei grandi poteri, i pesanti condizionamenti del potere imperiale, lui poteva intuire la parte che il nostro governo si era subito assunta per coprire i mandanti, le cortine fumogene, le omissioni, i silenzi che avrebbero reso vane le indagini e i processi. Io la lezione degli arcana imperii dovevo ancora capirla, e come molti fui colpito dalla strage come da una rivelazione: era finita la breve pace sociale della Prima Repubblica, finita l’unione patriottica degli anni della Resistenza. Eravamo una provincia dell’impero, subalterna alle grandi potenze. Veniva meno la fiducia ingenua ma reale nelle “autorità”, l’ingenua certezza che un prefetto, un questore, un procuratore generale non potevano mentire ai cittadini, non potevano stare al gioco degli interessi esterni.

La strage di piazza Fontana fu davvero una tragica rivelazione, un annuncio che lasciava sbigottiti i trecentomila milanesi accorsi ai funerali delle vittime, e il cardinale arcivescovo di Milano Colombo, che chiedeva in Duomo ai rappresentanti del governo di assumersi le loro responsabilità. E fu l’inizio degli anni di piombo. Per alcuni la decisione sbagliata ma irrinunciabile della guerra civile, del ricorso alle armi. Per altri l’impegno a mantenere comunque la democrazia, lo Stato di diritto anche a costo di stare in prima fila esposto ai fanatismi e alle feroci semplificazioni. Risale a quei giorni la presa di coscienza della grande crisi contemporanea, dell’impossibilità di ridurre la storia a scienza esatta, a matematica. Ci rendemmo conto che la storia è una corrente inarrestabile di cose, di idee, di eventi, qualcosa che ti sovrasta e ti trascina.

Cosa c’era nella tumultuosa corrente sociale dei primi anni Settanta? Di certo la coda della grande utopia comunista, l’ultimo picco delle occupazioni operaie delle fabbriche, l’ultima illusione sulla missione salvifica della classe operaia, classe generale capace di assumersi i doveri e i sacrifici necessari a una crescita sociale universale. Anche la fine dell’utopia socialista, delle richieste dell’impossibile: più salari e meno lavoro, più soldi e meno disciplina, più capitale e meno sfruttamento. E nessuno di noi testimoni saprebbe spiegare oggi perché quel terremoto sociale avvenne allora e non prima e non dopo, perché ogni giorno si tenevano assemblee studentesche e operaie. Di certo c’è solo che quella febbre c’era, e cresceva irresistibile, si formavano movimenti di opinione e di azione, come Autonomia Operaia, movimenti studenteschi, e i primi gruppi di lotta armata, senza nessuna reale possibilità di successo ma irresistibili.

L’unica spiegazione non spiegazione, l’unica irragionevole ragione di quella confusa temperie, me l’ha data il brigatista rosso Enrico Fenzi, quando lo incontrai nel carcere di Alessandria: «Perché abbiamo scelto la lotta armata? Perché io, perché noi eravamo quella scelta. C’è qualcuno che sa spiegare quello che si è e perché lo si è? Eravamo lotta armata perché per noi non era una forma della politica, ma la politica». Qualcosa di simile mi ha poi detto un altro brigatista, Bonisoli: «Siamo entrati nel grande mutamento con una cultura vecchia, la vecchia cultura rivoluzionaria, e a chi ci rimproverava per l’uccisione di un riformista dicevamo: ma non ci avete sempre detto che i nemici della rivoluzione, i traditori della classe operaia, vanno eliminati?». Ma c’era un’utopia anche nella repressione imperialista, che produceva le stragi come quella di piazza Fontana: c’era l’utopia che fosse possibile, con la forza e con la violenza, rovesciare il corso della storia, o anche, più modestamente, «spostare a destra il governo della repubblica italiana». Anche nell’estrema destra non ci si rendeva conto che a chiudere la stagione rivoluzionaria era stato il mutamento del modo di produrre, le trasferte automatizzate, la perdita del controllo operaio della produzione, l’avvento dei computer e di un mercato unico che consentiva di spostare la produzione nei luoghi dove l’opposizione operaia era debole o inesistente.

È l’articolo pubblicato su la Repubblica l’11 dicembre 2009 e riproposto dal giornale l’11 dicembre 2019

Gli autori

Giorgio Bocca

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