Il Nobel per la Pace, fra i diversi premi assegnati a Stoccolma e a Oslo, è da sempre quello più controverso, prestando facilmente il fianco a obiezioni di natura politica o ideologica. Diversamente da quanto ha osservato di recente l’Economist (Abiy wins a medal, oct. 2019), neppure l’assegnazione del Nobel a personalità della società civile o ad organizzazioni distintesi per cause umanitarie, per la difesa dell’ambiente o per la promozione dei diritti civili e politici, è stata sempre al riparo da contestazioni. Ciò è tanto più vero per i Premi attribuiti a personalità politiche, ove l’intento di indirizzare all’opinione politica e pubblica e agli stessi premiati un segnale tempestivo d’incoraggiamento, si è poi rivelato prematuro e persino, in qualche caso, parzialmente mal riposto (è per esempio il caso di di Aung Saan Suu Kii che testimonia, secondo il Financial Times, come “i premi possano dare alla testa”).
Pur con queste cautele, che derivano anche dall’insopprimibile differenza della politica rispetto alla sfera etica e umanitaria, non si possono non apprezzare gli impressionanti risultati positivi che l’azione del Primo Ministro Abiy Ahmed ha sin qui prodotto e che gli hanno valso il Nobel per la Pace, conferitogli “per i suoi sforzi in favore della pace e della cooperazione internazionale, e in particolare per la sua decisiva iniziativa per risolvere il conflitto frontaliero con l’Eritrea”. Un sommario conciso, accompagnato però, nella motivazione più articolata fornita dal Comitato norvegese, da precisi riferimenti al clima di apertura politica e rinnovamento interno avviato da Abyi Ahmed e alle altre sue iniziative di mediazione internazionale (in buona parte ancora inconcluse) per favorire le intese fra il regime sudanese e l’opposizione al fine della democratizzazione del Paese, fra la Somalia e il Kenya, fra Gibuti e l’Eritrea e fra le fazioni belligeranti del Sud Sudan. Anche se Isaias Afwerki, l’altra parte necessaria degli accordi bilaterali con l’Eritrea, non è stato formalmente equiparato ad Abyi Ahmed nel conferimento del Nobel, è stato tuttavia riconosciuto il suo ruolo positivo per aver prontamente colto l’occasione offertagli e per avere in questo modo contribuito a formalizzare il processo di pace fra i due Paesi.
Questi riferimenti del Comitato norvegese al più ampio contesto politico, interno ed internazionale, in cui si è collocata l’iniziativa di pace con l’Eritrea, non vanno interpretati come una semplice sommatoria di azioni virtuose, attribuibili all’azione di un uomo solo al comando. Allo sblocco della lunga situazione di stallo fra Etiopia ed Eritrea hanno, infatti, concorso diversi elementi e processi giunti solo gradualmente a maturazione: la scomparsa (nel 2012) del leader etiopico e tigrino più influente nonché storico avversario del Capo di Stato eritreo, Meles Zenawi, sostituito da un Primo Ministro, Hailemariam Desalegn, assai meno carismatico e dotato di un più debole radicamento e sostegno nelle strutture del partito al potere; il progressivo emergere, in questo stesso periodo caratterizzato da una minore pressione dal centro, dell’insofferenza fino ad allora latente di due delle etnie più importanti dell’Etiopia, gli Amhara e gli Oromo, rispetto alla protratta predominanza della componente tigrina (il TPLF) nel Partito (EPRDF) e nel Governo federali, nelle strutture economiche e negli apparati militari e di intelligence. In questo quadro segnato da un allentamento del potere centrale e da un violento riacutizzarsi delle tensioni interetniche, l’ascesa al potere di una personalità di etnia mista Oromo ed Amhara (anche se formata e cresciuta politicamente in un percorso tutto interno ai canali del regime), come Abiy Ahmed è stato il frutto di una scelta calcolata e intelligente, che ha inteso venire incontro in tal modo alle sempre più pressanti domande politiche delle regioni ed etnie fino ad allora penalizzate. Essa ha naturalmente comportato un riequilibrio delle diverse componenti del potere, un chiaro ridimensionamento dell’egemonia tigrina (è per esempio il caso di di Aung Saan Suu Kii che testimonia, secondo il Financial Times, come “i premi possano dare alla testa, rendendo ciechi alle critiche”) col sacrificio di una parte dei suoi esponenti di maggior influenza negli apparati, e l’abbandono di quella che ne era stata una delle caratteristiche più vistose, la sanguinosa rivalità con i cugini eritrei che pure erano stati in passato stretti partner nella resistenza armata contro il DERG.
Da un’altra prospettiva, proprio l’apertura di una nuova fase caratterizzata da una più complessa dialettica politica interna ha forse consigliato la chiusura dei fronti più caldi all’esterno, inaugurando così una politica estera meno arroccata e difensiva. Meles Zenawi era stato un politico abile e astuto, capace di conciliare all’interno – così come i suoi mentori cinesi – sviluppo economico e autoritarismo politico, e di ottenere dall’esterno un sostegno politico, militare e finanziario trasversale amplissimo, dalla RPC fino agli Stati Uniti e ai donatori occidentali. Sul piano regionale, tuttavia, “la sua politica estera era stata guidata, almeno parzialmente, dall’esigenza di contenere minacce interconnesse dall’Egitto, dalla Somalia, e da un mutevole insieme di altre potenze arabe” (Michael Woldemariam, Can Ethiopia’s reforms succeed?, in Foreign Affairs, Oct. 2019). Il disgelo con l’Eritrea riduce l’insidia di oscure guerriglie per procura, consentendo anche l’ammorbidimento delle frizioni frontaliere fra Eritrea e Gibuti ed Eritrea e Sudan e, forse, una più univoca e determinata disposizione di tutti i partner regionali in favore della stabilizzazione della Somalia. L’intero quadro regionale ne potrebbe risultare trasformato per il meglio, conferendo all’Organizzazione regionale IGAD una maggiore coesione ed incisività, anche riguardo alle prospettive di una maggiore integrazione economica fra i Paesi dell’area, che fra l’altro si potrebbe avvalere di corridoi di trasporto più efficienti e di sbocchi sul mare adeguati mediante l’apertura dei porti eritrei di Assab e Massaua che ovvierebbe finalmente alla cronica carenza dell’Etiopia (il cui commercio dipende oggi al 95% dal porto di Gibuti).
Più complesse e tutte da valutare le possibili conseguenze sullo scenario che collega il Corno d’Africa alla penisola arabica e al Medio Oriente: il ruolo di rilievo giocato dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti nel favorire il riavvicinamento fra Etiopia ed Eritrea significa, politicamente, l’ingresso di nuovi attori in un già complesso gioco d’influenze sul Corno d’Africa e un importante punto a favore segnato da Riad nella partita del controllo degli Stretti. Dal punto di vista economico un prevedibile maggiore coinvolgimento degli investitori del Golfo potrebbe contribuire, insieme ad altri fattori, a quella graduale modificazione del modello economico dirigista etiopico che Abiy Ahmed sembra perseguire, avviando una cauta liberalizzazione in alcuni settori dell’economia, rinegoziando il pesante debito contratto con i cinesi e diversificando i propri partner economici. Si tratta però di scenari in buona parte ipotetici, né bisogna dimenticare che la distensione con l’Eritrea è solo agli inizi, basandosi solo sul rapporto personale con il Capo di Stato eritreo, su una dichiarazione politica e sulla rinuncia etiopica al minuscolo territorio conteso di Badme, mentre manca ancora un accordo circa la delimitazione complessiva delle frontiere, e mentre la riapertura dei confini terrestri resta in forse e condizionata ai timori di Afwerki che essa possa portare ad un collasso del proprio regime autoritario.
Un ulteriore elemento di incertezza è rappresentato dall’atteggiamento del TPLF, il partito tigrino che in passato più risolutamente si era opposto alla normalizzazione con l’Eritrea e che solo con riluttanza ha finito per cedere la leadership federale ad Abiy Ahmed, respingendo però interferenze sulla gestione interna del Tigray e mantenendo, in quanto regione confinante, un certo controllo anche sui negoziati con l’Asmara. Il problematico rapporto con il TPLF è solo un esempio, per dimostrare quanto la risoluzione dei nodi interni sia ancora cruciale per la riuscita dei progetti del Primo Ministro etiopico anche sul fronte della politica estera. Nell’ascesa di Abiy Ahmed vi è infatti un elemento paradossale: il suo impulso innovativo e l’apparente facilità con cui in pochi mesi egli si è disfatto di alcuni capisaldi politico-ideologici del regime, aprendo con l’Eritrea, liberando prigionieri politici e inaugurando un processo di apertura politica interna senza precedenti, è stato reso possibile dalla progressiva crisi di un modello statuale forte, ma costituito dalla combinazione di due elementi sostanzialmente contraddittori un apparato statale fortemente centralizzato e una struttura federale organizzata su basi etnico/linguistiche. Questo sistema, innervato da un partito federale anch’esso articolato regionalmente e detentore di un monopolio politico di fatto se non proprio di diritto, poteva reggere solo se sostenuto da un potere centrale autoritario e da una leadership indiscussa e carismatica come quella di Meles. Venuta meno questa combinazione, sia per l’esplosione delle domande a lungo represse della periferia sia per il marcato affievolimento dell’autorità centrale, si è aperto lo spazio non solo per la liberalizzazione inaugurata da Abiy, ma anche – potenzialmente – per una spirale rivendicativa e centrifuga difficilmente controllabile. Le istituzioni centrali, indebolite sotto il profilo dell’autorità sulle regioni e sotto quello della sicurezza, si trovano ora confrontate con il compito gravoso di una rifondazione ideologica profonda, capace di rendere compatibile la maggiore democrazia interna con il controllo delle spinte autonomiste, sostituendo il potere diffuso e capillare del partito con la ricerca di un consenso personale per il Capo di Governo, che in prospettiva – secondo quanto lo stesso Primo Ministro ha anticipato – dovrebbe essere eletto direttamente dai cittadini e non più scelto dai rappresentanti del partito.
La riforma costituzionale accennata da Abiy Ahmed non è per intanto neppure iniziata e probabilmente potrà essere avviata solo dopo le elezioni del 2020, che – nelle intenzioni – dovrebbero dare al Primo Ministro una più forte legittimazione popolare. Si tratta di una sfida non ancora vinta, che richiama e declina in modo originale i percorsi politici di transizione dai sistemi di ispirazione socialista che sono già ben noti in Europa. La peculiarità tipicamente “africana” della transizione etiopica potrebbe risiedere nel tentativo di sostituire alle dinamiche interetniche disgreganti un possibile progetto di ricostruzione nazionale, magari fondato sul consenso “populista” verso una figura riformatrice. L’esito non è affatto scontato, viste le difficoltà che stanno emergendo proprio ad opera della minoranza, gli Oromo, che più aveva contributo all’ascesa di Abiy, ma l’evoluzione (o l’eventuale involuzione autoritaria) dell’esperimento etiopico potrebbe rivestire un significato esemplare anche per altre situazioni del continente, ove non è ancora stato sciolto il dilemma fra democrazia e dispotismo, fra la creazione di istituzioni statuali non meccanicamente ricalcate sull’idea importata della “nazione” e la sempre possibile ricaduta nei particolarismi etnici e tribali.